18 dicembre 1545

Quando la costruzione della biblioteca Marciana in Piazza San Marco a Venezia era giunta alla quinta/sesta arcata, crollò rovinosamente una parte della volta a botte che copriva la sala della biblioteca. La biblioteca era stata fortemente voluta dal doge Andrea Gritti, che intendeva dare a Piazza San Marco una nuova immagine “all’antica”. Perché una biblioteca? Perché i libri c’erano, tanti e preziosissimi: erano i manoscritti donati alla basilica di San Marco dal Cardinale Bessarione nel 1468, con la clausola che fossero conservati in Piazza San Marco. Lì per lì erano stati sistemati a Palazzo Ducale, ma nel 1515 un decreto del Senato aveva imposto che si cercasse per quei libri un luogo più acconcio. Custodi dei libri erano stati sin dall’inizio i Procuratori di San Marco de Supra, perché uno dei loro compiti era la tutela di tutto ciò che apparteneva alla chiesa di San Marco. I Procuratori amministravano anche tutti gli immobili in Piazza San Marco di proprietà della chiesa, che affittavano per destinarne le rendite al funzionamento, alla manutenzione e ai restauri della chiesa. Con il decreto del 1515 i Procuratori di San Marco iniziarono a essere sempre più pressati dal Senato (e infine anche dal doge), perché – oltre alla custodia dei libri – si sobbarcassero anche le spese per la costruzione dell’edificio che li doveva accogliere,e che avrebbe conferito alla piazza il carattere di un foro all’antica, sull’esempio di Roma e Atene. Quando da Roma giunse a Venezia l’architetto fiorentino Jacopo Tatti, detto il Sansovino, che fu nominato proto di San Marco, le pressioni si fecero cogenti, e i procuratori cedettero. Certo, alcuni tra loro sentivano di tradire il loro compito istituzionale, sottraendo entrate alla chiesa per destinarle alla costruzione della nuova biblioteca, ma le loro resistenze furono alla fine sbaragliate. Sansovino scelse come modello per il nuovo edificio la basilica Emilia, edificio antico che aveva attentamente studiato e disegnato nei suoi anni romani, e che gli sembrò adatto sia per la sua magnificenza, sia perché la custodia di libri richiedeva misure antiincendio. Venezia, città costruita sul fango, ha sviluppato una tecnica edificatoria fondata sulla leggerezza e sull’economia: muri sottili, solai di legno e tetti a capriate lignee, facili prede per il fuoco. Gli antichi, al contrario, avevano costruito edifici dotati di grandi volte in muratura, e avevano saputo contenerne le spinte laterali con possenti muri di grande spessore. Edifici di questo genere costavano tanto, tantissimo, è ovvio, ma il denaro non era certo un problema a Roma, che drenava immense ricchezze da tutto l’impero. Anche Venezia era ricca, certo che lo era, ma di una ricchezza neppure lontanamente comparabile a quella della Roma antica: qui, costruire all’antica significava nel Cinquecento in primo luogo fare i conti con gli spazi ristretti disponibili nella città medievale e con i suoi terreni malfermi, e in secondo luogo riuscire a contenere la spesa. Sansovino, forte dell’autorità della sua cultura dell’antico, iniziò a costruire a partire dall’angolo del campanile di San Marco: posò come fondazione robusti zatteroni di rovere e iniziò la costruzione della volta a botte, che avrebbe coperto una sala ampia ben 11 metri. E le spalle? La biblioteca è un edificio isolato, non c’è nulla che potesse fare da contrafforte, e Sansovino costruì muri sottili, con lo spessore di 1/14 della luce della sala. Secondo le regole in uso allora, era un dimensionamento adeguato a sostenere una struttura lignea, non spingente, ma non una volta, lo sapevano tutti! Lo sapeva anche Sansovino, non stiamo parlando di uno sprovveduto, e allora? Volte a botte, seppure meno ampie, erano state fatte anche nel Medioevo, per esempio la Cappella degli Scrovegni a Padova; per contenere le spinte usavano allora catene in ferro, e proprio a questo espediente pensò anche Sansovino, ma con una differenza sostanziale. La sala della biblioteca avrebbe ricevuto una decorazione di straordinaria ricchezza, e Sansovino pensò forse che tanto splendore sarebbe stato offuscato in una sala attraversata da decine di catene di ferro; e poi i romani non le usavano le catene, che fare? Da quello spirito ingegnoso e audace che era, si inventò un sistema di catene affogate dentro alla muratura della volta. Come lo sappiamo, se la volta è crollata? Da tanti indizi, per esempio dal fatto che catene così fatte sono ancora presenti nel portico della biblioteca. Era un espediente, un compromesso per riuscire a ricreare la magnificenza degli antichi, ma a basso costo, e si rivelò purtroppo un sistema del tutto inefficace, tanto che la volta miseramente crollò. Sansovino, ritenuto responsabile, fu sospeso dalla carica di proto e dallo stipendio annuo e condannato a rifare a sue spese la copertura, non più in muratura, ma a capriate, ossia seguendo il sistema tradizionale Che cosa dobbiamo pensare? Che Sansovino fosse un incapace? Ma tutt’altro! Il suo era un grande esperimento tecnologico, e se oggi è facile capire che quelle catene proprio non potevano funzionare, ai tempi di Sansovino non lo era per niente: la scienza delle costruzioni come la studiamo oggi e che risolve questi problemi strutturali si sviluppa infatti solo nell’Ottocento. Quel crollo fu per Sansovino una lezione di duro e crudo realismo: lui che all’inizio a Venezia tanto aveva osato, da quel momento comprese, per dirla con il suo amico Pietro Aretino, che “gli abiti de le architetture antiche non si confanno ai dossi de le moderne.”