27 Marzo 1511

Le signore putane supplicano il Patriarca, rappresentavano all'epoca circa il 5% della popolazione, il 10% della popolazione femminile e più del 20% delle donne in età da poter esercitare il mestiere più antico... il 27 marzo 1511 il “signore putane” inviò una supplica al Patriarca Antonio Contarini perché “nessuno va da loro a cagione dei peccati contro natura” nessuno si reca più da loro a causa di peccati innaturali. Lo pregano, in un certo senso, di porre rimedio alla loro tragedia. Non sappiamo se il Patriarca sia davvero intervenuto per rimettere le cose a posto, e se avesse investito in questa crociata contro il vizio, non sappiamo quali misure avrebbe potuto prendere. D'altra parte, sappiamo che il Consiglio Maggiore ha legiferato più volte su questo argomento, e che ogni volta i sacerdoti sono stati chiamati a dare il loro contributo, con l'affissione nella loro parrocchia, e con la chiamata alla confessione. Essere cortigiane nel XVI secolo a Venezia significava non solo offrire il proprio corpo agli uomini più importanti della società, avendo come fine il vivere in agiatezza, ma anche saper leggere, scrivere ed intrattenere con il proprio savoir fairie: Le cortigiane dovevano essere affascinanti, colte in molte discipline, dalla musica alle lettere, dalla danza alla politica. Queste figure femminili tanto desiderate non furono solo muse di uomini di lettere, ma anche di diversi pittori, i quali, per la loro bellezza le utilizzavano come soggetto per dipingere figure femminili, anche sacre, addirittura la Vergine Maria, ed esse erano felici perché attraverso i quadri che le raffiguravano, accrescevano la loro fama Le cortigiane dette “oneste” venivano definite in tal modo non per la loro rettitudine, ma perché onorate e rispettate. A Venezia dove la prostituzione era più tollerata e fiorente, le cortigiane, con la loro ostentazione ed il loro sfarzo costituivano anche un richiamo turistico ed una prova palese dei piaceri e della libertà garantiti nella Serenissima. Basta leggere Montesquieu, che diceva della Repubblica: Mai, in nessun luogo si sono visti tanti devoti e tanta poca devozione come a Venezia. Bisogna però ammettere che i veneziani e le veneziane hanno una devozione che riesce a stupire: un uomo ha un bel mantenere una cortigiana ma non mancherà la sua messa per nessuna cosa al mondo. Proprio un proverbio veneziano del settecento riassumeva così la dolce vita suggerita ai nobiluomini: ” La matina una messeta, dopo pranzo una basseta, dopo cena una donneta”, messa, bisca, amante. Un paradiso per l’Aretino che durante il suo soggiorno a Venezia unì attorno a se un gruppo di letterati (le cosiddette officine) i cui scritti avevano come soggetto le storie delle cortigiane.Un acuto osservatore della realtà italiana come Michel de Montaigne quando giunse a Venezia si meravigliò della quantità di cortigiane che con i loro proventi avevano conseguito uno stato sociale degno di una nobildonna.Queste si distinguevano, per categoria e prezzi richiesti, dall’abito; Se erano “oneste” indossavano eleganti soprabiti “zimarre” di velluto con i bottoni d’oro, con pelliccia di scoiattolo “vaio” e con le sopravvesti foderate di “pelliccia guarnaccia”, sottane di raso o ormesino lunghe fino a terra. Le più celebri percorrevano le salizzade e le calli seguite da paggi e servitori, ed indossavano gioielli preziosi. Di solito si arricciavano i capelli e li tingevano di biondo, raccogliendoli con cordelline di seta in una rete d’oro. Esse seguivano i consigli di una nota alchimista, la nobildonna Isabella Cortese, che nel 1500 pubblicò il libro “Secreta”, dedicato alla cosmetica femminile.Invece quelle di basso rango usavano giubbotti di tela, camicie e braghe da uomo. In capo avevano un mezzo velo bianco di cambrai acconcio con la falda, la quale sporgeva tanto in fuori sopra la testa da coprire tutta la fronte.Ai piedi calzavano scarpe rialzate, simili agli attuali zatteroni. Erano fanciulle “perdute” che si offrivano alla vista ed all’offerta dei passanti quasi del tutto svestite sul famoso “Ponte de le Tette”, incoraggiate in questo dal Doge e dal Vescovo che pensavano in questo modo di ridurre l’omosessualità dilagante in quel periodo.


27 Marzo 1770

a Madrid, mentre sta dipingendo l’immenso affresco delle glorie monarchiche nel Palazzo Reale, Giambattista Tiepolo, a 74 anni, muore. Non se lo aspettava nemmeno lui, pensava di tornare a Venezia, la sua città. Da dove partiva ogni tanto per l’Europa, uno dei maestri in viaggio continuo che i potenti del Settecento si contendevano. Poeti come il Metastasio a Vienna, vedutisti come Canaletto e Bellotto a Londra, musicisti come Boccherini in Spagna, Vivaldi e Salieri a Vienna, commediografi come Goldoni a Parigi. E lui Giambattista, sempre pronto a correre per il Veneto e la Lombardia, fino a Wurzburg in Germania a dipingere un altro immenso affresco celebrativo nella residenza del principe arcivescovo. Che uomo, Giambattista, sposato con la sorella del pittore Francesco Guardi e padre di Giandomenico altro grande artista, e che arte. Cieli sterminati, azzurri, colori di una primavera fresca e di una estate calda, mai autunno e inverno. Storie mitologiche di divinità, storie di Alessandro Magno e Antonio e Cleopatra. Dee e dei floridi vita su soffitte e tele esuberanti. Oggi Tiepolo sarebbe uno scenografo come Pierluigi Pizzi o un regista di fiction in costume? Difficile dirlo. Certo, l’uomo ha la mano svelta e leggera. C’è una vaporosità nelle opere, una eleganza, qualcosa che assomiglia al cristallo. Si sente che ama il Veronese, il grande artista rinascimentale dai costumi sfarzosi, dalla gioia di vivere, con le immense Cene evangeliche fastose e “veneziane”. Giambattista Tiepolo però ha qualcosa di diverso. È un autore di teatro. Chi va a Vicenza, sul colle dove sorge Villa Valmarana ai Nani e ammira le storie tratte dall’Iliade e dalla Gerusalemme liberata – Rinaldo che lascia Armida, il Sacrificio di Ifigenia…– , rimane affascinato dal colore rugiadoso, dai sentimenti idilliaci, dalla tristezza dolce e dalla tragedia che però finirà bene. Tutto è luminoso, aereo, sereno: ottimista. E chi va ad Udine – “città del Tiepolo” cui dedica una mostra fino a metà settembre – nella Galleria dell’Arcivescovado, resta incantato davanti alle scene di Rachele che nasconde gli idoli o dei Tre angeli che appaiono ad Abramo, vestiti di luce. La luce è la vera poesia del Tiepolo, la sua natura più affascinante. Colora le ombre, dà voce ai sentimenti. A Venezia nella chiesa di sant’Alvise dipinge la Passione di Cristo. La tela dell’Andata al Calvario è sincera, mai superficiale. Il Cristo in rosso e blu acquerello è realmente sfinito ed intorno la folla variopinta dai costumi fiabeschi è come il coro di un teatro musicale come nelle passioni di Bach, intorno al solista dolente, cioè il Redentore. Nelle numerose opere devote – l’Immacolata candida e bellissima a Madrid (Prado),le pale d’altare, le estasi dei santi – Tiepolo non è decorativo, ci crede. Canta, come la musica zampillante di Vivaldi, il dolore, l’amore, la gloria con la medesima facilità narrativa e purezza di sentimento dei soggetti profani. A Milano, a Palazzo Clerici, affresca sulla volta La corsa del carro del Sole, aprendo spazi infiniti e raggianti, lo scoppio di una luce aurorale che più candida non si può. È il paradiso che ci scende addosso. Come a Stra nella sterminata Villa Pisani dove celebra la gloria del casato nell’azzurro più sereno e incredibile. Pittore musicale, anzi “sinfonico”, celebrato, pagato, Tiepolo chiude la stagione dell’arte veneta in luce, così com’era nata. Quale la natura, l’essenza di questa luce? È la gioia di essere al mondo, vivi, con spontaneo ottimismo. Perchè la vita, pur con il dolore, è cosa bellissima.