17 Marzo 1542

muore a Padova Angelo Beolco detto il Ruzzante, nato a Padova o forse Pernumia nel 1496, è stato un drammaturgo, attore teatrale e scrittore veneto. Il Ruzzante, scrittore veneziano, figlio naturale del medico Giovan Francesco Beolco, professore presso la facoltà di medicina dell'Università di Padova, ebbe una lunga e proficua collaborazione con l'amico Alvise Cornaro, ricco proprietario terriero e letterato. Autore di numerosi trattati di architettura e di agraria, il Cornaro rappresenta un'importante figura di intellettuale proprio per il carattere "laico" del suo operato. Con l'intento di rappresentare alla corte dei cugini Marco e Franco, cardinali, la realtà del contado, commissionò a Ruzante le due orazioni. Quando conseguì il traguardo di amministratore del vescovato padovano, ridusse l'amico al ruolo di fattore, per poi tornare a rivalutarlo dopo che l'incarico gli era stato revocato. Riguardo alla data di nascita sussistono ancora numerosi dubbi e non è stato ancora possibile rinvenire un documento attestante una data certa di nascita di Angelo Beolco. È vero, tuttavia, che, nel corso degli ultimi trent'anni circa, le ricerche archivistiche (specialmente per merito di due studiosi veneti, Menegazzo e Sambin) hanno permesso di retrodatare progressivamente la nascita di Angelo Beolco, che ora si ritiene possa essere stata intorno al 1496. Il Beolco, infatti, appare come teste in documenti notarili successivi di una ventina d'anni: per farlo doveva, secondo la legge, avere già raggiunto la maggiore età, che all'epoca era di venticinque anni. Se consideriamo che l'atto notarile di delega da parte del padre quale curatore degli affari famiglia risale al 1521, il conto è presto fatto. È ignoto anche il luogo di nascita, sebbene nella Prima orazione si legga: de quigi, saìu, che se ciama dotore, perché, se gi è igi do-tore, a' ghe son mi tre de le tore (di quelli, sapete, che si chiamano dottori, perché, se hanno due-torri, ci sono io che ho tre torri); è al riguardo probabile che richiamasse lo stemma araldico di Pernumia, che reca, appunto, tre torri e che secondo questa interpretazione dovrebbe essere, appunto, il luogo di nascita. Morì a Padova in casa del Cornaro il 17 marzo 1542. Alvise Cornaro, in un suo scritto, attribuì la morte del Ruzzante ai troppi "disordini" e alle "dissipatezze", accreditando così l'immagine di un commediografo sregolato, probabilmente non coincidente con il vero. Dal tono della dichiarazione, si intende che il Cornaro ambisse più ad elogiare sé stesso, che non a commiserare l'amico defunto, e che intendesse compiacere anche l'amico Sperone Speroni (il testo è contenuto appunto in una lettera rivolta a lui), che occupava un ruolo di rilievo nella Padova dell'epoca. Il Cornaro, d'altra parte, teorico della vita sobria, arrivò a disporre per sé di essere sepolto "con Ruzzante e messer Giovanni Maria Falconetto", anche per sottolineare il legame intercorso con i due. Fu sepolto nella chiesa di San Daniele dove una lapide commemorativa posta nella navata centrale tuttora lo ricorda, mentre nella casa di fronte si individua il sito della residenza padovana dell'autore. Nella critica, l'immagine di Ruzzante è variata nel tempo. Creduto autore "tutto istinto", come lo definì Emilio Lovarini, tra i suoi primi studiosi, oggi Ruzzante è unanimemente considerato autore "colto". Tra le altre prove di questa sua cultura ci sono le citazioni o i riferimenti interni alle sue opere, che spaziano dalla cultura classica a echi della cultura luterana d'Oltralpe. Nel corso dei secoli la sua fortuna è stata alterna. Nei primi decenni successivi alla morte, e fin quasi alla fine del secolo, fu citatissimo, anche se, dalla natura di predette citazioni, dobbiamo pensare che derivino al più da tradizioni orali che dalla lettura dei suoi lavori, le cui pubblicazioni sono tutte postume. Autore di opere teatrali, trasse per se stesso lo pseudonimo di Ruzzante, dal nome di un personaggio delle sue commedie, un contadino veneto che è stato differentemente caratterizzato di opera in opera. Le varianti del personaggio corrispondono alla diversa prospettiva da cui l'autore ha voluto analizzarlo, in uno scavo progressivo mai viziato da populistico fervore, e che, nel complesso delle opere, porta ad un ritratto "a tutto tondo" della realtà del contado pavano. Il nome "Ruzzante" era peraltro diffuso (e lo è anche oggi) in un'area geografica che il Beolco frequentava: a Pernumia e dintorni. Quello di Ruzzante era il ruolo che Beolco stesso interpretava nella messa in scena delle sue commedie. Unica eccezione costituisce il Secondo Parlamento de Ruzzante - Bilora in cui interpretò il ruolo dello zio Pitaro. Fu un grande sperimentatore, mettendo a frutto proprio l'esperienza diretta di attore e regista. La sua frequentazione di diversi generi non fu mai arbitraria. Trovando un argomento, sceglieva, tra le strutture della tradizione, quella che riteneva più idonea a rappresentarlo, ed entrando in essa, la modificava dall'interno. Riuscì così a rinnovare il mariazzo, l'egloga, la commedia pastorale ecc. Insaziabile curioso, non mancò di polemizzare con i più illustri contemporanei, in particolare col Bembo, ampiamente schernito proprio nella Betia. Gli studiosi hanno individuato, proprio intorno al 1530, un certo cambio di atteggiamento nel Beolco: il mondo dei poveri, degli sfruttati, dei contadini, è presentato con l'amarezza di chi conosce la vita squallida e segnata dalle ingiustizie delle classi subalterne. Gli atti unici, sempre in dialetto, del 1528 - 1529, Dialoghi rustici, Dialogo secondo (o Bilora) e Parlamento de Ruzante che iera vegnù de campo ("Ragionamento di Ruzante, reduce dal campo di battaglia"), sono opere in cui Ruzante affronta la questione città - campagna, contrapponendo al vizio e alla corruzione della prima la naturale forza vitale della seconda, e la secolare sottomissione e condanna alla povertà dei ceti contadini. Le alterne fortune critiche di Ruzzante si legano a due fattori. Il primo è costituito dalla difficoltà linguistica. Infatti il pavano del suo parlato è di fatto scomparso da più di due secoli e risulta, a tratti, inintelligibile [senza fonte] anche ai suoi conterranei. Le riduzioni in italiano perdono lo slancio linguistico, il senso più profondo del gioco legato ai richiami più attinenti alla struttura semiotica. Per questo risultano molto efficaci le riduzioni in altre parlate, tra cui meritano segnalazione quella del 1921, ad opera della Compagnia dello Stabile Lucano, quella del 1950 della Moscheta con la regia di Gianfranco De Bosio e di Ludovico Zorzi (lo stesso che ha curato la traduzione più recente dell'opera ruzantiana per Einaudi) e quella della Te.A.R., curata da Alberto Ticconi, che nel 1995 fu rappresentata al Convegno Mondiale di Studi Ruzzantiani in Padova nel vernacolo del sud pontino. Il secondo fattore ha profonde radici storiche. Il definitivo avvento della borghesia ingenerò quella che è la malattia ineliminabile della cultura veneta, e anche italiana: il disimpegno. Tre anni dopo la morte di Beolco fu stipulato il primo contratto della Commedia. Si trattava di un patto tra attori, e la Commedia dell'arte fu essenzialmente questo: un accordo tra professionisti in ottica del divertimento puro. Affermatasi a discapito delle classi subalterne, la borghesia non amava l'inquietante verismo ruzzantiano; i contadini, dopo quella fugace apparizione alla ribalta della scena, dovevano cadere nell'oblio. Per questo, dal Seicento in poi, l'opera del Beolco finisce nel dimenticatoio, per riaffacciarsi solo agli inizi del XX secolo agli onori della scena. Le sue opere sono tornate ad essere rappresentate nella Loggia Cornaro, scena rinascimentale per eccellenza. Il "giullare" Dario Fo, durante il discorso pubblico nel momento in cui veniva insignito del Premio Nobel per la Letteratura, così definiva Ruzzante: «Uno straordinario teatrante della mia terra, poco conosciuto... anche in Italia. Ma che è senz'altro il più grande autore di teatro che l'Europa abbia avuto nel Rinascimento prima ancora dell'avvento di Shakespeare. Sto parlando di Ruzzante Beolco, il mio più grande maestro insieme a Molière: entrambi attori-autori, entrambi sbeffeggiati dai sommi letterati del loro tempo. Disprezzati soprattutto perché portavano in scena il quotidiano, la gioia e la disperazione della gente comune, l'ipocrisia e la spocchia dei potenti, la costante ingiustizia». A Padova gli è stato dedicato un teatro e poco distante un tratto della riviera (dalla Questura a via Rudena).In numerose città, tra cui Milano, gli è stata dedicata una via.


17 Marzo 1846

La rivisitazione dell’Attila di Giuseppe Verdi consente al Teatro La Fenice di ripercorrere una tappa della propria storia, dal momento che l’opera, intitolata al temibile condottiero unno, esordì proprio alla Fenice, il 17 marzo 1846. Tale ripresa offre altresì l’occasione ai veneziani per riflettere sulle origini della città lagunare e sul suo delicato rapporto con l’acqua, grazie all’ambientazione del prologo nel «Rio-Alto, nelle Lagune Adriatiche» nella metà del quinto secolo dopo Cristo. Recenti ricerche in ambito archeologico hanno completamente screditato la leggenda secondo la quale la fondazione di Venezia risalirebbe al 452 d.C., all’epoca cioè dell’invasione degli Unni che, guidati da Attila, conquistarono Aquileia, Concordia e Altino costringendo le popolazioni dell’Impero romano d’Occidente, ormai in declino, a rifugiarsi negli isolotti della laguna. Pare infatti che quella della discendenza romana dei veneziani fosse una ‘storia’ costruita ad arte, all’inizio dell’undicesimo secolo, da un funzionario del doge Orseolo, per enfatizzare, a scopi politici, i legami tra Roma e Bisanzio. nessuna fuga dunque, ma una migrazione delle popolazioni dell’entroterra verso un’area nella quale l’acqua non fungeva da barriera contro il nemico, ma rappresentava piuttosto una importante fonte di sostentamento e uno strumento per lo sviluppo del commercio. naturalmente la scoperta del ‘falso storico’ su cui si basa l’Attila nulla toglie al valore della nona opera del catalogo di Verdi: sappiamo che ciò che appassionava il bussetano, come si evince anche dalle raccomandazioni che egli rivolge al librettista, non fosse infatti la veridicità storiografica della vicenda narrata, bensì la plausibilità dell’immagine storica rievocata in scena, che doveva essere caratterizzata da una precisa accuratezza visuale, da una ricostruzione più esatta possibile di scene, usi e costumi di una determinata epoca, in direzione di un realismo visuale che è l’istanza sempre più imprescindibile del teatro di quel periodo. Entrata ben presto in repertorio – in quanto emblema della cosiddetta ‘opera patriottica’ –, Attila ottenne un tiepido successo alla prima rappresentazione, per acquistare poi consensi più convinti via via che le repliche si succedevano. Motivo del debutto incerto fu forse la scarsa vena degli interpreti: vi figuravano il basso Ignazio Marini (Attila), il baritono natale Costantini (Ezio), il soprano Sofia Löwe (Odabella), il tenore Carlo Guasco (Foresto), il tenore Ettore Profili (Uldino) e il basso Giuseppe Romanelli (Leone). Verdi aveva già lavorato con molti di essi: Marini aveva interpretato il ruolo principale in Oberto, conte di San Bonifacio, Guasco era stato il primo Oronte nei Lombardi alla prima crociata e il primo Ernani a Venezia nel 1844, Sofia Löwe era stata la prima Elvira in Ernani oltre ad aver interpretato altri ruoli verdiani in diverse riprese. Solo Costantini, Romanelli e Profili non avevano mai debuttato in un ruolo verdiano. Complice del mancato trionfo fu anche, evidentemente, un’infelice circostanza dell’allestimento: come ci ricorda in una nota di colore la «Gazzetta Privilegiata di Venezia», il pubblico fu disturbato dall’infelice ricorso a candele che producevano un odore nauseabondo, talché il ‘flagello di Dio’ si trasformò in sincero ‘flagello dei nasi’.


17 Marzo 1848

Venezia si solleva contro il dominio austriaco. Passato il "ciclone" napoleonico. Alla Restaurazione, nel 1815. unita alla Lombardia per formare il Regno Lombardo-Veneto. Venezia passò (come se si trattasse di un giocattolo) di nuovo all'Austria. Ricominciò allora per i Veneziani il grande sogno dell'unità di una Patria (non della Patria) libera e indipendente dopo anni di dura oppressione, con moltissimi suoi patrioti che affrontarono il carcere duro nel ribellarsi agli austriaci. Erano ribellioni isolate, che durarono 33 anni. ma poi infine l'eroica grande insurrezione di quest'anno: 1848. Ad accendere gli animi (non solo a Venezia ma in mezza Europa) fu la notizia della rivoluzione parigina; ma a dar fuoco alla miccia fu soprattutto quella viennese, scoppiata il 13 marzo; la notizia giunse da Trieste con una nave a Venezia il 17, e fu questa notizia a scatenare l'insurrezione non solo a Venezia ma in tutto il Veneto e in Lombardia. I grossi problemi gli austriaci li avevano anche loro in casa, quindi era il momento di approfittarne. La popolazione minacciosa si concentrò su piazza San Marco e il suo primo pensiero fu quello di andare all'assalto dell'Arsenale e dirigersi al palazzo del governatore per far immediatamente liberare Manin e Tommaseo dalle carceri. Carlo Alberto re di Sardegna, approfittando degli stessi moti scatenatisi a Milano (la notizia dei moti viennesi vi giunse il 18). anche lui da Torino dichiarò guerra agli austriaci il giorno 17 - quella che viene ricordata come inizio della prima guerra d'Indipendenza. Un entusiasmo che durò poco. anche perché il Re "tentenna" sabaudo - temporeggiando -arrivò a Milano quando i milanesi nelle "Cinque Giornate" -18-22 marzo- si erano già liberati da soli e avevano messo in rotta gli austriaci. Primo pensiero di Carlo Alberto fu quello di indire un referendum e farsi proclamare Re anche della Lombardia. Di modo che mentre lui "raccoglieva e contava voti", invece di inseguire subito gli austriaci e cacciarli oltre il Ticino, questi si riorganizzarono nel "quadrilatero" a "raccogliere e contare soldati". Ed infatti, pochi mesi dopo riconquistarono non solo Milano ma inseguirono il re piemontese fino a Novara - Mancò poco che arrivassero a Torino. Carlo Alberto dovette abdicare, passare lo scettro al figlio Vittorio Emanuele, e partire per l'esilio. Per i milanesi fu una grossa delusione. Prima perché il Sabaudo aveva tentato di scippare la vittoria ai milanesi, poi perché spudoratamente li tradì. Fino al punto da far dire a Carlo Cattaneo che "piuttosto che dare la Lombardia in mano a un traditore come Carlo Alberto preferisco la riconquista da parte degli austriaci. In effetti Carlo Alberto "conquistò" Milano e la Lombardia -un ambizione coltivata da sette secoli dai suoi avi- senza aver rischiato nulla. nemmeno un uomo. Non solo, ma una volta entrato a Milano manifestò una certa ostilità nei confronti dei volontari che sopraggiungevano da tutta Italia. Non predispose lui e i suoi generali un piano di difesa della città, non volle sguarnire i presidi perché aveva il timore (!) di insurrezioni antisabaude; non incalzò subito gli austriaci. ma pensò solo a costituire il giorno ....8 aprile un governo provvisorio tutto filo-sabaudo e indire il 12 maggio un referendum per l'annessione della Lombardia al Regno di Sardegna e alle sue leggi. Il che voleva dire mettere suoi uomini nelle amministrazioni deludendo chi si era illuso Aveva appena accolto i milanesi e lombardi come cittadini nel suo "regno fatto di menzogne", ma ecco che a Novara 135 giorni dopo li rinnegava, si arrese agli austriaci. e per salvare il suo Regno Sardo. assicurò loro che non avrebbe mai più aiutato nè i lombardi né i veneti. Più sanguigni, ma purtroppo soli, erano rimasti i veneziani. Potevano aspettare i piemontesi!! A questi mancò poco di perdere anche il Piemonte. Tuttavia a Venezia non si persero d'animo. Lottarono per 18 mesi.

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