Il 16 settembre 1449

Le truppe veneziane, in seguito all’accordo stipulato con Francesco Sforza, varcano le porte cremasche. Gli abitanti del luogo non sono entusiasti dell’evolversi della situazione ed infatti i consigli locali più volte avevano chiesto assicurazioni al governo milanese contro il ventilato passaggio di dominazione. L’esito degli scontri tra le due potenze non fù quello sperato e Crema suo malgrado dovette accettare la nuova Dominante. Le vicende che seguirono diedero modo ai cremaschi di ricredersi ed i rapporti con Venezia furono subito caratterizzati da una buona armonia a tal punto che difficile fu la decisione di arrendersi ai francesi all’indomani della sconfitta veneziana ad Agnadello del 1509 perché «lieti di un governo mite e nazionale, ripugnava a molti di dover chinare la fronte a nuovi comandi, in favella straniera, di padroni nuovi». In tali parole si sottolinea sia la paura di sottoporsi ad una dominazione straniera sia il timore di abbandonare una situazione tranquilla garantita dai buoni rapporti instaurati con Venezia. Infatti non appena la Serenissima fu in grado di riprendersi le città perse, Crema fu tra le prime a giurarle fedeltà e non ebbe motivo di staccarsene fino al 1797. Fin dalle prime fasi della dominazione veneziana Crema avvia con la Dominante relazioni concretamente vantaggiose frutto dell’evoluzione storica che la contraddistingue. A partirte dalle sue origini il luogo lombardo fu caratterizzato da una particolare vitalità che la portò a svilupparsi, nonostante le grandi ed importanti città che lo circondavano: Milano, Brescia, Bergamo e specialmente Cremona che da sempre osteggiò l’affermarsi di Crema considerata una rivale temibile.


Il 16 settembre 1604

Il Taglio di Porto Viro, voluto dalla Repubblica Veneta, fu un’opera colossale, anche e soprattutto per gli scarsi mezzi di cui si disponeva in quei tempi, costituiti principalmente da badili, pale di legno, carriole. (Senza voler accendere polemiche, paragonando i tempi geologici che sono necessari oggi per completare le opere pubbliche – supposto che arrivino all’ultimazione – quelli furono estremamente brevi, tanto che qualcuno li ha definiti addirittura «esemplari»). Gli osservatori inviati dal Papa durante i lavori, che erano stati avviati nella stagione migliore essendo le acque basse, trovarono un ambiente inospitale, pieno di acquitrini maleodoranti, infestati da sciami di zanzare e tafani, e si convinsero che le probabilità che i lavori fossero destinati a essere abbandonati quanto prima erano tante. Ma si trattò di una pia illusione. I lavori proseguirono e giunsero alla loro conclusione secondo il progetto e consistettero nell’escavazione di un nuovo alveo per il fiume, che tagliava il suolo nel tratto compreso fra gli attuali Porto Viro e Taglio di Po, nome quest’ultimo che chiarisce il contenuto del progetto. Così, nacque il Delta moderno. I Veneziani avevano visto giusto e in poco tempo la laguna veneta, scampato il pericolo, tornò alla vita. Il 16 settembre 1604, come atto conclusivo dell’opera, si provocò una falla nell’argine destro del Po di Tramontana, e le sue acque, non più dirette verso Nord-Est, bensì verso Est, giunsero nel territorio ferrarese e, dopo un percorso di circa sette chilometri, entrarono nella sacca di Goro. Il provveditore Giacomo Zane comunicò al Doge il compimento dei lavori, inviandogli il seguente messaggio: «Hoggi alle hore 19, con il favor del Signor Dio, si ha dato acqua al nuovo Taglio, la quale vi è entrata per 50 e più aperture, che si sono fatte nel medesimo tempo nell’argere, et dopo di aver fatto un poco di empito, in spatio di un’hora in circa si parizò con l’altra acqua dell’alveo, et continuò il suo corso, come fa tuttavia placidissimamente». La sua conclusione fu: «Piaccia al Signor Dio, per come à principato a correre con molta felicità [naturalmente si parla dell’acqua], così continui per sempre, a beneficio pubblico, et de particolari ancora». Con quell’intervento eccezionale per l’epoca in cui è stato portato avanti, la città di Venezia era salva, in quanto riuscì a fare in modo che essa «non possa avere mai altre mura se non la laguna».