8 agosto 1381.

La pace di Torino del fu l'evento che pose fine alla guerra di Chioggia tra Genova e Venezia. Nel principio della guerra i Genovesi sembrarono avere la meglio, riuscendo a sconfiggere Venezia. Genova giunta all'apogeo della sua potenza era intenzionata a mettere in ginocchio definitivamente la rivale Venezia con un attacco diretto che l'avrebbe strangolata dal mare con la flotta della Repubblica e da terra con le forze alleate del re d'Ungheria Luigi il Grande, dall'arcivescovo di Aquileia e del signore di Padova, Francesco da Carrara, che nutriva verso Venezia un odio che travalicava i limiti dell'ossessione. Contro avversari tanto formidabili, la sopravvivenza della repubblica lagunare era in gravissimo pericolo. Già nel biennio precedente Venezia era stata costretta sulla difensiva. Nel 1377 Andronico, figlio ribelle dell'imperatore di Costantinopoli Giovanni I, aveva noleggiato una flotta genovese per attaccare, senza successo, Tenedo, isola dell'Egeo dove la flotta achea si era nascosta per dissimulare la propria partenza prima dell'assalto finale a Troia. Contemporaneamente nel Trevigiano cominciava l'accerchiamento da terra. L'anno successivo Genova assumeva direttamente l'iniziativa: inviava 22 galee, al comando di Luciano Doria per dare seguito al tentativo di affamare Venezia troncando la sua linea di comunicazione con le colonia, ma Doria, sorpreso dall’ammiraglio veneziano Vettor Pisani era costretto a trovare rifugio a Zara nell’inverno del 1378, dove era costretto anche a subire un blocco navale. Nella Primavera successiva, Pisani, che aveva svernato a Pola, veniva rinforzato da 11 galee e tornava a scontrarsi con i genovesi, con esito incerto, mentre scortava un carico di grano destinato alla madrepatria. Ritornato a Pola, veniva prima bloccato dai genovesi e quindi sconfitto rovinosamente in battaglia il 7 maggio del 1379: ritornato in patria fu accusato di incapacità e codardia, processato, condannato e incarcerato. La morte in combattimento del comandante genovese venne rimediata con sollecitudine inviando in sua sostituzione Pietro Doria con altre 14 galee di rinforzo. Con la sconfitta della flotta veneziana era maturato il momento per prendere energicamente l’iniziativa, e Genova e i suoi alleati lo colsero senza indugi. Dall’inizio di luglio 1379 la flotta genovese intraprese le prime minacce dirette alla città lagunare partendo da basi in Dalmazia, arrivando infine il 6 agosto ad assaltare Chioggia con l’aiuto di Padova, che agiva da terra con una sua flottiglia per l’attacco anfibio: un’armata combinata di 24.000 uomini che impiegò 10 giorni ad avere ragione dei 6.000 uomini della guarnigione veneziana, duemila dei quali morirono nei furiosi combattimenti. Finalmente Genova disponeva di una base dalla quale chiudere un efficace blocco marittimo di Venezia: le galee dell'epoca, infatti, non avevano la capacità nautica per effettuare blocchi a lunga distanza, ma necessitavano di basi molto vicine all'obiettivo strategico. Con l'occupazione di Chioggia questa condizione era oltretutto coniugata ad un ottimale collegamento con la terraferma e l'alleato padovano. Venezia era completamente isolata, la sua capitolazione per fame era solo questione di tempo. Una situazione disperata che richiedeva una risposta disperata. L'intera città maturò la determinazione a resistere: l'arsenale si avviarono febbrili lavori di fabbricazione di nuovi navigli e di riparazione di quelli vecchi. Ogni strumento in grado di galleggiare fu requisito, ogni cittadino venne armato. Vettor Pisani, detenuto nei "Pozzi" per scontare la sua condanna, venne reclamato a gran voce dalla popolazione e liberato: a lui venne affidata la difesa della città. Le difese cittadine sia da parte di terra che di mare vennero rafforzate e corredate di artiglieria: una vera novità per l'epoca e per l'Italia che dimostra il grado di impegno della Repubblica anche sotto il profilo tecnologico. Gli intensi e spasmodici preparativi di guerra non impedirono di giocare anche la carta diplomatica: data l'inutilità di rivolgersi a genovesi e padovani, si provò a dividere il campo avversario rivolgendosi al re di Ungheria. Le condizioni di pace poste da re Luigi, però, furono così dure e umilianti che vennero rifiutate: rimaneva solo la guerra e gli sforzi furono moltiplicati. Da un lato la città si mobilitò per raccogliere risorse straordinarie: in prima linea il doge Andrea Contarini che impegnò le sue rendite e inviò al tesoro pubblico le sue argenterie. Dall'altro si adottarono misure politiche altrettanto straordinarie: occorreva unire in uno sforzo comune l'intera popolazione della città e il Gran Consiglio determinò il proprio allargamento ai 30 cittadini non nobili che più si fossero distinti nella difesa della Repubblica. La saldatura tra gli interessi del patriziato e quelli dei ceti popolari andava oltre le dichiarazioni di principio e diventava progetto politico. Dopo spasmodici preparativi Venezia fu pronta al contrattacco. Pisani, approfittando della circostanza che la flotta genovese si era chiusa nel canale di Brondolo per resistere al mare invernale, e non avrebbe quindi potuto dispiegare la propria superiorità, tentò un colpo a sorpresa. Una flotta di 34 galee con 60 barche armate e centinaia di altri battelli uscì dal porto la notte del 23 dicembre approfittando delle lunghe ore di buio, dirigendosi verso Chioggia. Giunti all’alba, Pisani fece sbarcare a Brondolo circa 5.000 uomini per occuparne la punta. Nel frattempo la flotta, dividendosi in più colonne, raggiungeva gli sbocchi al mare dei canali e li ostruiva affondandovi barconi carichi di pietre e collegandoli tra loro con palizzate. Imprigionate le galee genovesi nei loro approdi con questo stratagemma, incominciava una lunga e serrata battaglia tra opposte trincee con alterne fortune. I veneziani assediavano Chioggia, ma nel contempo erano minacciati dalla terraferma da continui tentativi di rompere l’accerchiamento e di rifornire gli assediati. L’arrivo dall’Oriente di 8 galee al comando di Carlo Zeno rinvigorì il morale e fornì un ulteriore iniezione di fiducia. La lotta si protrasse per ben sei mesi con una ferocia di cui è difficile trovare paragoni. I veneziani dovettero fronteggiare rivolte di mercenari non pagati, contrattacchi da terra e dal mare, sconfitte e vittorie. La loro artiglieria, tra cui la gigantesca "trevisana", tempestò i genovesi con pesanti proiettili di pietra che ne distrussero le difese, uccidendo in un crollo anche Pietro Doria. I difensori, riidotti a poco più di 4.000, cedettero per fame, costretti a mangiare cuoio bollito, il 24 giugno 1380. La guerra non era ancora finita ma Venezia ormai era salva. Venezia non fu mai così vicina all'estinzione, tra la sua nascita avvolta dal mito nel VI secolo e la sua fine per mano di Napoleone nel 1797, come nella Guerra di Chioggia, dove la "Serenissima" mise in gioco tutte le sue risorse e diede prova di tutte le sue qualità. Il singolo fattore più importante di successo per l'esito finale della guerra, infatti, fu proprio Venezia stessa, ovvero il carattere politico, sociale e civile che essa aveva costruito nel corso dei secoli. Le istituzioni veneziane avevano sviluppato un alto livello di consapevolezza nell'interesse collettivo della comunità veneziana, ben rappresentato dall'organizzazione della "muda": un convoglio organizzato dallo stato per proteggere le navi commerciali nei loro lunghi viaggi con una scorta di galee da guerra. In virtù di questa cultura condivisa, nel momento del massimo pericolo la popolazione poteva quindi identificarsi e stringersi attorno al governo del Gran Consiglio, che non mancò come anticipato di riconoscere questo sforzo anche ai plebei aprendo loro le porte del patriziato. La mobilitazione totale delle energie nazionali verso il comune obiettivo della sopravvivenza della Repubblica riuscì così ad avere la meglio su forze tanto superiori. L'8 agosto 1381 Genova si arrese davanti all'impossibilità di poter protrarre la guerra ancora per molto. A ricercare la pace erano, oltre alle due contendenti, anche papa Urbano VI e i Fiorentini, che temevano lo stato di guerra permanente per i disagi nei loro commerci. Ma a persuadere i Veneziani e i Genovesi al deporre le armi fu la mediazione di Amedeo VI di Savoia, il Conte Verde. Il grande prestigio raggiunto dal membro di Casa Savoia si poté vedere proprio nella pace siglata a Torino l'8 di agosto 1381. I due contendenti sottoscrissero i seguenti accordi: Venezia cedeva la Dalmazia al re di Ungheria, ma riceveva in cambio una retribuzione annua di 7000 ducati d'oro oltre che il monopolio della navigazione nell'Alto Adriatico. Venezia cedeva alla Casa d'Asburgo Conegliano e Treviso. Padova cedeva a Venezia Cavarzere. Il Patriarca di Aquileia s'impegnava a ritirare le sue truppe dai luoghi da esse occupati. Genova perdeva tutte le conquiste effettuate durante la Guerra. Amedeo VI, in quanto mediatore, riceveva l'isola di Tenedo, nell'Egeo.


8 agosto 1447

La Piavesella di Nervesa è un corso d'acqua della provincia di Treviso. Il breve canale che, all'altezza di Nervesa della Battaglia, preleva l'acqua dal Piave, da cui il suo nome: Piavesella. Si immette nel Botteniga poco prima del centro storico di Treviso. E’ lungo poco più di 26 km. La realizzazione del canale fu decretata l'8 agosto 1447 per irrigare le aride terre tra Treviso e il Piave. Secondo alcuni storici l'attuale Piavesella è identificabile con quello di un antico corso del Piave che da Nervesa si dirigeva a Treviso: "... è ormai assodato che in tempi remoti il Piave si accompagnava al Sile seguendo da Nervesa il corso dell'odierna Piavesella ...". Tuttavia, fu sfruttata anche per il trasporto del legname e, soprattutto, per muovere mulini, segherie e opifici e, a partire dal Novecento, venne potenziata e vi furono installate anche alcune centrali elettriche. Il primo progetto per un nuovo e più ampio canale, con maggior portata d'acqua, basato sull'antico alveo della Piavesella, risale al 1447 ad opera del notaio e nobile trevigiano Michele da Villorba. E’ di pochi anni successivi, del 1507, la relazione di Fra' Giocondo che descrive le caratteristiche fisiche e tecniche della Piavesella. Nel 1590 si formò, per lo sfruttamento di questo corso d'acqua, anche un consorzio volontario tra i paesi limitrofi (il Consorzio della Piavesella) e fu così che in questa parte del territorio trevigiano delimitata a nord dall'abitato di Visnadello, ad ovest dalla strada Pontebbana e a sud dalla Postumia romana, tra il '600 e l'800 troviamo, posti a cavallo del corso d'acqua della Piavesella e nel raggio di alcuni chilometri, numerosissimi opifici, tra cui ben quattro cartiere tutte proprietà del patrizio veneziano Gritti, ma anche battiferro, segherie, folli da panni. Tra i più antichi siti archeo-industriali della Piavesella va sicuramente citato il sito della Cartiera Marsoni che vede il suo continuativo impiego fin dal 1468. L'antichissima "Cartara da carta strazza" divenne poi nell'800 la Cartiera Marsoni che è ancora attiva. La Piavesella con il suo percorso parallelo alla direttrice Pontebbana (la S.S. n° 13), diventerà poi l'asse portante della prima industrializzazione di questo dopo-guerra, anche grazie alla presenza lungo il suo corso di alcune officine elettriche. Ancora nel 1913 rappresentava il secondo corso d'acqua artificiale della provincia, dopo la Brentella, per la presenza di attività industriali con 22 impianti idraulici e 42 industrie che davano lavoro a circa 1.600 operai. Non a caso, ancor oggi attraversa alcune zone industriali (quelle di Nervesa della Battaglia, Arcade, Spresiano, Villorba).


8 agosto 1553.

Muore l'8 agosto 1553 Girolamo Fracastoro,Hieronymus Fracastorius , (nato nel 1478 circa, Verona, morto a Caffi (ora Affi, vicino a Verona), medico, poeta, astronomo e geologo, che ha proposto una teoria scientifica della malattia sui germi più di 300 anni prima della sua formulazione empirica di Louis Pasteur e Robert Koch . All'Università di Padova Fracastoro era collega dell'astronomo Copernico. Come medico ha mantenuto uno studio privato a Verona. È meglio conosciuto per "Syphilis sive morbus Gallicus " "La Sifilide o Mal Francese", un'opera in rima che rende conto della malattia. Fece un intenso studio delle malattie epidemiche e, mentre era al servizio di papa Paolo III al Concilio di Trento (1545-63), fornì la giustificazione medica per la rimozione del concilio allo stato pontificio di Bologna sottolineando il pericolo di peste nella città di Trento dell'Italia settentrionale. Fracastoro ha delineato il suo concetto di malattie epidemiche in De contagione et contagiosis morbis (1546; "On Contagion and Contagious Diseases"), affermando che ciascuno è causato da un diverso tipo di corpo minuto che si moltiplica rapidamente e che questi corpi vengono trasferiti dall'infettore all'infezione in tre modi: per contatto diretto ; da trasportatori come indumenti e biancheria sporchi; e attraverso l'aria. Sebbene i microrganismi fossero stati menzionati come possibile causa di malattia dallo studioso romano Marcus Varro nel I secolo a.C., Quella di Fracastoro è stata la prima affermazione scientifica della vera natura del contagio, dell'infezione, dei germi delle malattie e delle modalità di trasmissione della malattia. La teoria di Fracastoro fu ampiamente elogiata durante il suo tempo, ma la sua influenza diminuì e cadde in discredito generale fino a quando una versione sperimentale fu successivamente elaborata dal medico tedesco Robert Koch e dal chimico francese Louis Pasteur.