Storia e leggenda dei Veneti

Una storia lunga 3000 anni    OGGI ACCADDE


29 maggio 1420

la Serenissima concede a Portogruaro la sua protezione, con un documento noto come “privilegio di Portogruaro”, con il quale si riconoscono prerogative e diritti alla città; a questo periodo di apogeo sociale ed artistico, risalgono le opere più significative e di valore della città: il Fondaco del commercio, con il suo portale, i ponti, prima di legno, ora eretti in pietra, con lapidi che recano scolpiti gli stemmi della città e dei podestà ai quali sono attribuite le committenze( anche se siamo memori del fatto che,al podestà, non sarebbe stato consentito apporre il proprio stemma su edifici da lui restaurati o edificati, secondo la commissione ducale dettata dal doge Loredan nel 1520; in Portogruaro questa norma non era evidentemente molto rispettata, data la quantità di stemmi e di nomi di podestà che ancor oggi si vedono sulle lapidi dei ponti ed in altri luoghi) . Anche l’attuale Villa Comunale, progettata, probabilmente, da Iacomo de Grigis da Alzano, detto il Bergamasco, che il Sansovino definì “eccellente architetto” e molti dei palazzi rinascimentali di via Martiri e di via Cavour, furono costruiti intorno alla metà del sedicesimo secolo, Nel 1797 avviene la "memoranda caduta della Veneta dominazione" e, con l’arrivo dei Francesi si costituisce anche a Portogruaro la Municipalità provvisoria; la presenza dei soldati francesi comportò ingenti spese a carico del comune, il quale, per farvi fronte fu costretto a vendere perfino l’argenteria delle chiese; col trattato di Campoformido Napoleone cedeva all’Austria il territorio dell’ex Veneta Repubblica sino alla riva sinistra dell’Adige. Nei primi mesi del 1801, Portogruaro è praticamente divisa in due, con i Francesi alla destra del Lemene e gli Austriaci sulla sinistra; la situazione si stabilizzò poco dopo e l’amministrazione austriaca restò sino al 1805, quando il Veneto tornò alla Francia, entrando a far parte del Regno d’Italia. Nel 1807 la Municipalità indirizzò una richiesta di aggregazione a Venezia, esaudita con decreto reale nel 1810 e, quindi, dopo il Congresso di Vienna, Portogruaro tornò sotto la dominazione austriaca fino al 1866, quando, in seguito al conflitto austro-prussiano, l’Austria dovette cedere il Veneto al regno d’Italia. Ai Francesi di Napoleone si deve la distruzione di molti dei “leoni veneziani”, scolpiti nel ‘500 ed apposti sulle sommità dei piloni dei ponti portogruaresi (“il leone che turbava il sonno dei democratici fu barbaramente scalpellato…”), e, agli austriaci in ritirata alla fine della prima guerra mondiale, si deve la distruzione di alcuni ponti rinascimentali di valore storico ed architettonico, come il ponte del Rastrello, (il cui nome risale al fatto che, nel 1300, un componente della famiglia Squarra, una delle più nobili e famose famiglie portogruaresi, in discordia col vescovo Artico, lo fece chiudere con un “rastrello con catena, rifiutandosi, poi di dare una chiave al vescovo”) e quello della Stretta, via nota già nel 1463, perché sede delle carceri..


29 maggio 1453

Dopo un lungo ed estenuante assedio Costantinopoli viene conquistata dall'esercito turco guidato dal sultano Maometto II. La caduta di Costantinopoli segna la fine dell'impero bizantino e la città diventa da quel momento la nuova capitale dell'Impero ottomano. Il 31 ottobre del 1448 muore, dopo una lunga malattia, l’imperatore Giovanni VIII Paleologo che non lascia eredi diretti; così a succedergli è il fratello Costantino, despota della Morea, che in precedenza ha assunto per due volte la reggenza della capitale in assenza del Basileus, recatosi in Occidente nella speranza di risolvere la spinosa questione religiosa con la Chiesa Cattolica. Acclamato dal suo esercito e incoronato il 6 gennaio del 1449 egli si insedia ufficialmente a Costantinopoli il 12 marzo. Tuttavia né la sua tenacia, né la sua abilità politica, sono sufficienti per salvare l’impero dall’inevitabile crollo. Sul fronte turco, invece, alla morte di Murad II, il 5 febbraio 1451, sale sul trono il figlio Maometto II il quale viene proclamato sultano il 18 febbraio ad Adrianopoli, la capitale dell’impero turco. Dopo aver sedato una piccola ribellione ed essere rientrato ad Adrianopoli, Maometto II, per rinsaldare ulteriormente il suo potere, ancora troppo debole agli occhi di molti, inizia a meditare su una possibile conquista di Costantinopoli. Questo ambizioso quanto audace progetto assorbe totalmente il giovane sultano; egli passa le notti a pianificare l’impresa con meticolosa accuratezza, valutando le diverse strategie possibili da poter attuare. Costantinopoli è stata precedentemente assediata ben due volte dagli ottomani: la prima volta nel 1394 dal sultano Bayazid e la seconda da Murad II nel 1422. Maometto II analizza con molta attenzione gli assedi condotti dai suoi predecessori ed individua la ragione principale per cui hanno fallito: in entrambi i casi le forze che hanno cinto le mura dal lato della terraferma non sono state sostenute da un’adeguata forza navale che avrebbe dovuto bloccare la città dalla parte del mare. Ragion per cui il sultano da l’ordine di iniziare a costruire una grande flotta e contemporaneamente prende la decisione di innalzare una munita fortezza sul Bosforo, nelle immediate vicinanze della capitale, per bloccare l’accesso al Mar Nero alle navi provenienti dall’Europa. Vista la situazione sempre più disperata, l’imperatore Costantino invia altri ambasciatori a Venezia e Roma per informare il Doge ed il pontefice sul drammatizzarsi degli eventi e per chiedere nuovamente un aiuto militare. Qualcosa si muove e il 16 ottobre arrivano a Costantinopoli il Cardinale greco Isidoro, in passato metropolita di Kiev ed ora legato pontificio, e l’arcivescovo di Militene, Leonardo di Chio, insieme a circa duecento uomini. Il contributo militare più significativo per la causa bizantina non viene offerto dai potenti regnanti occidentali, ma da un soldato di ventura genovese, Giovanni Giustiniani, il quale sbarca nella capitale il 16 gennaio 1453 con due navi e circa 400 o 700 uomini. Nominato immediatamente “protostrator” dall’imperatore, Giustiniani organizza nel migliore dei modi la difesa della città: vengono effettuati lavori di rafforzamento delle mura terrestri, ripuliti e scavati nuovi fossati e all’ingresso del Corno D’Oro viene tesa una pesante catena di ferro che di fatto avrebbe sbarrato l’accesso al porto alla flotta ottomana. L’esercito di Maometto giunge nei pressi di Costantinopoli il 4 aprile 1453, con al seguito un’enorme bombarda trainata da un tiro che conta tra i 60 ed i 150 buoi (si pensi che il trasporto dell’enorme bombarda richiese circa 2 mesi). I soldati bizantini si distribuiscono lungo tutta l’estensione delle mura terrestri e in misura minore lungo quelle marittime; il tratto più vulnerabile è senza dubbio quello compreso tra la porta di Adrianopoli e quella di San Romano; questo il Basileus e Giovanni Giustiniani lo sanno bene, così come sono consapevoli del fatto che Maometto avrebbe concentrato in quel punto il grosso dell’artiglieria, ragion per cui si posizionano lì con gli uomini migliori di cui dispongono. Sul numero complessivo dei difensori della città si hanno dati contrastanti nelle fonti: c’è chi parla di 4.973 uomini, chi di 5000 e 7000, il grosso composto da greci ed il resto da latini. Anche le stime dell’esercito turco variano tantissimo: si va dai 160 mila ai 700 mila combattenti. In poco tempo le bombarde dimostrano di essere ben altra cosa rispetto alle armi meno efficaci utilizzate da Murad II nell’assedio del 1422. Con il passare delle ore e dei giorni le palle di cannone che si vanno a schiantare contro le mura terrestri iniziano a far sbriciolare interi tratti murari. Per quanto spettacolari siano queste demolizioni, il danno arrecato, tuttavia, non è determinante per chiudere subito la questione. Danneggiare seriamente le possenti mura di Costantinopoli richiede tempo e ciò consente a Giovanni Giustiniani di prendere efficaci contromisure: egli fa riempire i varchi che si aprono nelle mura con sacchi di lana e barili ricoperti da cumuli di terra per attutire i colpi. Con il trascorrere dei giorni e delle settimane, sotto gli incessanti bombardamenti ed i continui scontri, senza più la speranza di essere soccorsi dagli europei, la tensione e la frustrazione iniziano a serpeggiare tra i difensori, tanto che Giovanni Giustiniani e il Megadux Luca Notara giungono quasi alle mani per un futile motivo. Il 26 maggio Maometto fa cessare i combattimenti e proclama un digiuno solenne di tre giorni; ordina, inoltre, alle sue truppe di accendere in tutto l’accampamento falò votivi e di invocare con le preghiere l’aiuto divino in vista dell’assalto finale da lui pianificato. In città, nel frattempo, si approfitta della breve tregua per erigere delle barricate nei punti in cui si sono create delle falle e per riorganizzare la difesa; l’imperatore pronuncia un lungo discorso ai suoi soldati nel tentativo di infondere ulteriore coraggio e determinazione, ma la situazione è ormai disperata. Alle 3 di mattina del 29 maggio ha inizio l’attacco turco che si svolge in tre ondate successive: nella prima sono impiegate dal sultano le truppe di minore valore, composte prevalentemente da cristiani che prestano servizio nel suo esercito per adempiere al dovere di vassallaggio dei loro sovrani nei confronti degli ottomani; la seconda ondata, invece, si compone di soldati provenienti dall’Anatolia e sicuramente più motivati. Nel tentativo di scalare le mura, queste truppe ausiliarie subiscono numerosissime perdite senza riuscire a sfondare, ma realizzano comunque l’obiettivo di Maometto: fiaccare la resistenza dei bizantini. A questo punto scendono in campo i giannizzeri che costituiscono il corpo d’élite dell’esercito ottomano. Nonostante lo smisurato vantaggio numerico dei turchi, le difese continuano a reggere fino a quando non si verifica un fatto che quasi tutte le fonti individuano come la causa principale della disfatta: Giovanni Giustiniani, ferito gravemente, abbandona la zona dei combattimenti e viene portato su una nave ormeggiata nel porto per essere medicato, ma nel putiferio della battaglia nessuno pensa di nominare un comandante che sia in grado di sostituirlo e quando i soldati notano la sua assenza iniziano inconsciamente ad arretrare. Contemporaneamente uno sparuto gruppo di soldati ottomani scopre fortuitamente un passaggio nella muraglia interna, vicino la porta di San Romano, riuscendo così a penetrare al di là delle barricate. E’ da quel momento che la difesa comincia a cedere e l’esercito ottomano non trova più nessun ostacolo al suo riversarsi in città. Quando anche i bizantini che stanno continuando a battersi lungo le mura marittime si trovano i nemici alle spalle il panico e il disorientamento si diffonde tra i difensori; molti soldati rinunciano immediatamente a combattere arrendendosi agli invasori, altri fuggono verso casa nella speranza di mettersi in salvo con i familiari. Durante lo sfondamento turco perde la vita anche l’imperatore Costantino XI e i resoconti sulle modalità della sua morte divergono notevolmente: alcuni hanno scritto che muore trafitto da una moltitudine di frecce mentre combatte eroicamente; altri che viene decapitato mentre tenta ignobilmente di fuggire; altri ancora che si toglie la vita per la disperazione gettandosi dalle mura. Sta di fatto che l’unica cosa di cui abbiamo certezza è che l’ultimo imperatore Paleologo muore in quella giornata. Gli ottomani dilagano verso il centro saccheggiando e prendendo in ostaggio tutte le persone che trovano lungo le strade e all’interno delle abitazioni. Buona parte della popolazione di Costantinopoli si rifugia nella basilica di Santa Sofia confidando in un’antica profezia secondo la quale, se mai dei nemici avessero invaso la città, dal Paradiso sarebbe disceso un angelo che non gli avrebbe consentito di entrare nella cattedrale. Purtroppo non si compie alcun miracolo e tutte le persone che lì si radunano vengono fatte prigioniere. Stando a calcoli attendibili, soltanto 16 navi, con a bordo circa 6.000 persone, riescono a fuggire, su una popolazione che conta tra i 50 ed i 60 mila abitanti. Maometto II, che da quel momento viene ricordato come il Conquistatore per questa sua impresa nella quale molti suoi predecessori hanno fallito, fa il suo ingresso in città solo nel primo pomeriggio, accompagnato dai suoi visir e comandanti. Una volta giunto all’interno di Santa Sofia non rinuncia a ringraziare Allah. Per il comandante genovese Giovanni Giustiniani, invece, non c’è niente da fare, muore durante la fuga in mare per la grave ferita riportata durante la battaglia. Tra i superstiti vi è invece il cardinale Isidoro di Kiev che il 6 luglio invia dall’isola di Creta un appello rivolto a tutti i popoli cristiani con il quale li invita a mettere da parte ogni diatriba e unire le forze per combattere insieme contro la minaccia turca. Nel giro di qualche settimana la notizia della caduta della capitale dell’impero bizantino raggiunge Venezia e da lì si diffonde negli altri stati della penisola e in Europa suscitando ovunque sgomento e terrore. Nonostante ciò nessuna guerra viene organizzata contro i turchi e Costantinopoli diventa da quel momento la capitale dell’Impero ottomano.


29 maggio 1630

Seconda battaglia di Villabona, la strada diretta dall’Austria verso Mantova era bloccata dai territori veneti e gli imperiali, sotto Rambaldo di Collalto, evitarono la munita valle dell’Adige scendendo per la via della Valtellina nel Milanesato e da qui verso Mantova. In Lombardia le fanterie imperiali lasciarono la peste ricordata dal Manzoni e tosto si portarono all’assedio della capitale del ducato gonzaghesco. La città era difesa da una guarnigione soprattutto francese ma era isolata e l’unica speranza di soccorso stava a questo punto nella repubblica, che sino ad allora si era più che altro mantenuta su una neutralità armata. Tale guarnigione respinse una prima volta gli imperiali in marzo ma di fronte alla mancata ritirata di costoro confidò negli alleati. Caratteristicamente la repubblica ai suoi impegni non si sottrasse, ed in breve armò un esercito con l’obiettivo di soccorrere Mantova, nuovamente stretta d’assedio dagli imperiali. Tale esercito si raccolse presso il borgo fortificato di Valeggio sul Mincio, sul confine tra la repubblica e il ducato mantovano, sotto la guida del Provveditore Generale alle Armi Zaccaria Sagredo e del Provveditore in campo Girolamo Trevisan e si limitò ad una funzione di osservazione, contando sull’affluenza di rinforzi costituiti in parte da cernide e in parte da mercenari reclutati all’estero. Numeri precisi non ne ho trovati ma probabilmente si trattava di alcune migliaia di uomini. Un’avanguardia composta da soldati corsi, considerati truppa scelta, cernide e pochi francesi, guidata dal francese duca di Candale, fu comunque inviata in territorio mantovano verso Goito, occupata dagli imperiali, e si attestò presso il borgo di Villabona, sede di una corte fortificata dei Gonzaga. A questo punto gli imperiali da Goito intimarono ai veneziani di ritirarsi e di fronte al loro rifiuto, attaccarono. L’attacco ebbe successo: i veneziani abbozzarono una resistenza che venne meno quando gli imperiali li colpirono di infilata con alcuni pezzi d’artiglieria. Pare di soldati corsi ne siano caduti parecchi mentre le cernide si diedero ad una fuga disordinata. Ma il peggio doveva ancora venire. Gli sconfitti di Villabona si diressero di corsa a Valeggio e qui trasmisero in quattro e quattro otto il panico, primo tra tutti al Provveditore Generale alle Armi. Il Sagredo convocò un consiglio di guerra ove la maggior parte dei capitani, primo fra tutti il duca di Candale, suggerirono di resistere: ma fu tutto inutile. Probabilmente preso anch’egli dal panico decise per l’abbandono immediato della piazza, che fu attuato in modo disordinato, con soldati, civili e carriaggi in fuga verso Peschiera e Verona, inseguiti da reparti di cavalleria imperiale. Il nemico si avvicinò incredulo a Valeggio, piazza considerata munitissima, e quando si rese conto di ciò che era successo la occupò senza colpo ferire. La conseguenza militare della rotta fu che Mantova rimase sola, in preda alla fame, e senza speranza di soccorso. Si difese eroicamente per un altro mese e mezzo e cadde per tradimento nella notte tra il 17 e il 18 luglio. La splendida capitale dei Gonzaga fu lasciata alla mercè delle soldatesche tedesche e conobbe un terribile sacco, con un enorme bilancio in termini di vittime e di distruzioni. La peste fu l’altro corollario di tanta sventura. Il territorio restò occupato dagli imperiali sino all’anno successivo quando, allarmato dallo sbarco svedese in Pomerania, Ferdinando II ritirò le proprie truppe. La guerra ebbe poi termine con il trattato di Cherasco del 6 aprile 1631 con Carlo Gonzaga confermato quale duca di Mantova; il 29 maggio 1631, esattamente un anno dopo il fattaccio, gli imperiali abbandonarono Valeggio. Ma tremende furono le conseguenze della disfatta internamente alla repubblica. Le truppe venete in breve si sbandarono e persero ogni disciplina, rovesciandosi entro le mura di Peschiera e soprattutto di Verona; i soldati portarono con se la peste che in un anno avrebbe ridotto la popolazione della città scaligera da 55000 a 20000 abitanti. Questi fatti sono dettagliatamente riportati nelle cronache del tempo. Il governo veneto e l’opinione pubblica furono indignati dal fatto e i responsabili vennero immediatamente inquisiti e sottoposti a giudizio, mentre nuovi comandanti furono inviati a Verona e Peschiera cercando di salvare il salvabile. Ma le relazioni di tali nuovi comandanti sono lettere sconsolate sullo stato delle truppe. Venne inviato a Verona un Inquisitore in campo, nella persona di Francesco Basadonna, ad indagare sulla vicenda mentre Zaccaria Sagredo, Girolamo Trevisan e il responsabile del commissariato, Alvise Mocenigo, furono richiamati a Venezia. Il Senato veneto processò i tre già nel settembre 1630, assolvendo Trevisan e Mocenigo ma ritenendo colpevole il Sagredo, che fu condannato a 10 anni di reclusione da scontarsi in fortezza senza veder la luce e alla successiva interdizione dai pubblici uffici. Zaccaria Sagredo aveva peraltro molti amici nel patriziato (suo fratello maggiore era stato il mentore veneziano di Galileo Galilei) e in seguito a dettagli processuali e giudiziari che sono rimasti ignoti non scontò il carcere duro bensì si limitò a ritirarsi a Sebenico sino a quando fu evidentemente riabilitato tanto da essere nominato podestà di Padova nel 1634. Dei suoi figli Niccolò fu eletto nel 1675 105º doge della Repubblica mentre Alvise nel 1678 fu eletto Patriarca di Venezia. L’onore militare di Venezia si sarebbe brillantemente riscattato meno di vent’anni dopo, quando, praticamente da sola, intraprese contro il turco la lunga Guerra di Candia.


29 maggio 1797

Negli anni che fecero seguito alla definitiva caduta della Repubblica di Venezia, ebbe luogo una "strage" iconoclasta dei leoni marciani, perpetrata dagli occupanti francesi e dai giacobini locali a partire dal 1797. Alberto Rizzi, il più autorevole storico dei Leoni di San Marco, chiama la “leontoclastia” napoleonica che vedeva gli invasori francesi e i loro collaborazionisti distruggere nel solo centro storico un migliaio di Leoni. Questi interventi distruttori non riguardarono soltanto le sculture o le raffigurazioni pittoriche dei leoni veneziani: anche stemmi, pennoni, bandiere e altri manufatti furono spesso vandalizzati o fatti a pezzi. Emblematico il caso delle insegne dei rettori veneziani di Verona, trascinate nel fango e poi bruciate dai giacobini in piazza Bra il 7 maggio 1797, mentre essi danzavano la Carmagnola attorno all'albero della libertà, presso i resti del monumento che avevano appena demolito. Una prima ondata di distruzione di leoni veneziani era avvenuta al tempo della guerra della Lega di Cambrai, portata contro la Serenissima dal 1508 al 1516, ad opera delle truppe coalizzate, specie francesi e imperiali. I leoni di San Marco furono invece rispettati dagli austriaci negli anni della Restaurazione, in segno di discontinuità con la Rivoluzione francese, ma anche dagli Ottomani. (sia pure, in questo caso, solo in quanto preda bellica da esibire a mo' di trionfo) nelle località da essi conquistate alla Repubblica di Venezia. La più capillare "leontoclastìa" mai verificatasi nella storia rimane dunque quella operata dai franco-giacobini di Napoleone Bonaparte nel 1797, all'indomani della sollevazione legittimista delle Pasque Veronesi. Nell'ex-dominio di Terraferma, le municipalità giacobine filofrancesi imponevano alle famiglie nobiliari di abbattere o scalpellare dai rispettivi palazzi e a proprie spese i rispettivi emblemi; così a Verona, fra maggio e giugno del 1797, ma anche in altre città in Veneto e nella Lombardia veneta. Nella sola città lagunare, circa mille leoni esterni agli edifici (salvo alcuni dentro il Palazzo Ducale e quelli dentro le chiese, che furono risparmiati) furono abbattuti da squadre di tagliapietre incaricati dalla municipalità democratica che, con decreti del 29 maggio e del 24 luglio 1797, aveva ordinato di abbatterli o scalpellarli. In terraferma veneta ascendono «ad almeno quattromila, tra grandi e piccoli, gli esemplari marciani danneggiati o totalmente distrutti. Si infierì naturalmente sugli emblemi delle porte civiche, delle mura, degli edifici pubblici e privati e in primo luogo su quelli svettanti dalle colonne». Nuove ondate di distruzione di leoni marciani si ebbero alla fine del XIX secolo da parte di croati del Litorale austriaco, quale reazione al nazionalismo italiano e all'irredentismo che si stava diffondendo nelle comunità italiane d'Istria e Dalmazia, poi nel 1932-1933, dopo la caduta del fascismo e l'8 settembre 1943 fino al 1945, e infine a Zara nel 1953, nella Jugoslavia socialista del maresciallo Tito. Da parte slava si vedeva nel leone marciano non più il simbolo di Venezia o dell'evangelista, ma quello del nazionalismo italiano, che lo aveva strumentalizzato per fini propagandistici; durante la seconda guerra mondiale, paradossalmente, gli ustascia filonazisti e i partigiani comunisti erano accomunati dall'opera di devastazione dei leoni di San Marco e di altri monumenti storici e artistici di grande valore.
LIBERTA’ EGUAGLIANZA
IL COMITATO DI SALUTE PUBBLICA
ALLA MUNICIUPALITA’ PROVVISORIA DI VENEZIA
… DECRETA
“Primo. – Che tutti què Leoni, che considerati sono come stemmi, o indicazioni del passato Governo, sieno levati da tutti i luoghi ove esistono.
Secondo. – Che il presente Decreto sia demandato al Comitato di Salute Pubblica per la sua esecuzione.”

Data li 29 Maggio 1797. V.S. Anno primo della Libertà Italiana.
ROTA Vice Presidente
PIETRO GIO. CARMINATI Segretario.