Storia e leggenda dei Veneti

Una storia lunga 3000 anni    OGGI ACCADDE


27 maggio 1100

La partecipazione dei veneziani alla Prima Crociata fu scarna ed essenzialmente legata alle operazioni in mare. Venezia fu impegnata nel traghettare dall’una all’altra sponda dell’Adriatico i crociati poi, mentre l’esercito cristiano si spingeva nella Valle dell’Oronte e raggiungeva Antiochia, disparve. Si trattò di semplici navi commerciali, navi onerarie partite dalla patria solo trasportare uomini, armi e vettovaglie, non erano un’armata da impiegare in operazioni di guerra. La prima vera grande armata navale crociata fu quella genovese, che comparve sulle coste siriane nel luglio del 1097. Con l’esercito crociato ancora lontano, i genovesi gettarono l’ancora a Porto San Simone nel novembre di quell’anno e, con una forte schiera di armati e manovali esperti nella costruzione di macchine da guerra, si gettarono nell’assedio di Antiochia. Anche Pisa, con centoventi navi sotto il comando dell’arcivescovo Daiberto, prese parte alla crociata e raggiunse Laodicea, sul finire del 1099. Più tardi Venezia portò le sue navi negli assedi di Caifa e Sidone. L’armata veneziana giunse ultima tra tutte, ma fu di grande aiuto. Era il 1100, il vessillo crociato sventolava su Gerusalemme, ma le difficoltà dei crociati erano diventate enormi. Le condizioni della Città Santa erano gravissime. Il grande esercito crociato si era ridotto a poche centinaia di uomini privi di tutto, di armi, di cibo, di medicamenti. Dal giorno della conquista per essi era cominciata una lotta continua con gli arabi, senza tregua, senza sosta. L’intervento veneziano in Palestina fu pianificato sotto il dogato di Vitale Michiel e sicuramente fu pensato anche per scopi commerciali al fine di occupare mercati e tratte che altrimenti sarebbero state nelle mani esclusive di genovesi e pisani. La Repubblica ordinò l’allestimento delle navi e, per accrescere l’armata, furono eletti due provveditori, Badoero da Spinale e Faliero Stornado, che raggiunsero la Dalmazia e s’occuparono di raccogliere più imbarcazioni e più soldati. Si convocò il popolo nella Basilica di San Marco e qui il vescovo di Castello, Enrico Contarini, fu proclamato capo spirituale della spedizione, mentre Giovanni Michiel, figlio del doge, ne fu posto alla guida militare. Dopo la solenne messa, il patriarca di Grado, Pietro Badoer, consegnò il vessillo crociato al vescovo mentre il doge diede quello di San Marco al figlio. Cessata la cerimonia, finalmente i veneziani si imbarcarono e salparono, toccando ancora la terraferma per una benedizione presso il monastero di San Nicolò di Lido – forse promettendo di portarvi le reliquie di San Nicola di Mira – e poi a Zara. Dalla Dalmazia la flotta giunse a Rodi. Si contavano più di duecento navi, tra cui ottanta galee. A Rodi e vi trascorsero l’inverno assicurando Goffredo di Buglione ed il Patriarca di Gerusalemme, che sarebbero presto andati in loro soccorso, tuttavia ci furono diversi intoppi che protrassero la loro permanenza sull’isola sino a sette mesi. A quanto pare i veneziani a Rodi ricevettero sia doni che minacce dall’imperatore Alessio, timoroso che i regni cristiani d’Oriente si sarebbero un giorno rovesciati contro Bisanzio, poi arrivò anche una flotta pisana ed allora insorse una vera e propria battaglia. I pisani si dirigevano con cinquanta navi in Palestina, non sapevano di incontrare sulla loro strada i rivali di San Marco e mal tollerarono la cosa. Probabilmente pretendevano di soggiornare nei quartieri già occupati dai veneziani, fatto sta che trenta navi dogali ingaggiarono lo scontro con quelle di Pisa ed ebbero la meglio. Calata la notte ventidue navi pisane si allontanarono. Al mattino i veneziani liberarono le imbarcazioni catturate e circa quattromila prigionieri fatti, trattenendone trentasei in ostaggio. Finalmente il 27 maggio del 1100 i veneziani navigarono verso Mira, città posta sulla costa della Licia. La trovarono distrutta, ma riuscirono egualmente a prendere con sé ciò che restava delle reliquie di San Nicola già in larga parte prelevate da marinai di Bari. Da Mira ripresero il viaggio e terminarono la navigazione sbarcando a Jaffa. Vi trovarono Goffredo di Buglione, ormai infermo, ed il patriarca in condizioni disperatissime. Fu Tancredi d’Altavilla a concertare con loro il da farsi. I veneziani avrebbero combattuto dalla festa di San Giovanni Battista, il 24 giugno, sino al giorno dell’Assunzione di Maria, il 15 agosto. Il patto stabilì che ad essi fossero in cambio concesse una chiesa ed un luogo atto a stabilirvi un magazzino in ogni città già presa ed in ogni città che si sarebbe conquistata. Si dispose inoltre che ai veneziani spettasse un terzo di ognuna delle città conquistate e l’intera Tripoli, dietro pagamento di un tributo annuo, se conquistata. I veneziani avrebbero pure avuto esenzione da imposte e la sicurezza di personale e beni sulle loro navi. Stabilito ciò Contarini e Michiel, poi seguiti dai loro uomini, si portarono in pellegrinaggio al Santo Sepolcro. Dopo quindici giorni dal loro arrivo, iniziarono l’Assedio di Caifa. Prima dell’assedio Contarini tentò di evangelizzare gli arabi, poi si passò alla guerra vera e propria coi veneziani che occuparono il porto, bruciarono le navi nemiche e strinsero la città in un blocco dal lato del mare erigendo anche un castello di legno che superò in altezza le torri dei difensori, mentre Tancredi tenne le sue truppe a completare l’assedio sulla terra. Le operazioni furono rallentate da un dissidio scoppiato quando Tancredi, che voleva unire Caifa al suo principato di Galilea, scoprì che Goffredo di Buglione era morto e che, prima di spirare, aveva promesso la città Geldemaro Carpinel. Irritato il normanno scelse allora di abbandonare il campo ed i veneziani, a loro volta impossibilitati a continuare da soli l’assedio, si ritirarono. Solo quando Tancredi ebbe confermato dal nuovo Patriarca di Gerusalemme, Dagoberto di Pisa, il futuro possesso di Caifa, le operazioni ripresero. I veneziani si portarono all’assedio trovando la città già nelle mani di Tancredi d’Altavilla. Finite le operazioni le navi di San Marco lasciarono la Terra Santa e rimpatriarono portando al monastero di San Nicolò di Lido le reliquie prese a Mira, soddisfatti d’aver ricavato dalla spedizione tanti vantaggiosi patti. Da allora, morto Vitale Michiel soppiantato dal doge Ordelafo Falier, Venezia non dispose nuove flotte militari per l’Oriente. Restò concentrata nelle guerre con le vicine città di terraferma. Non mancano cronache del XV secolo che parlano di una cooperazione veneziana alla presa di Acri, ma son prive di riscontri, anzi l’assoluto silenzio di Dandolo e degli altri storici delle crociate dell’epoca annulla questa tesi. In verità nell’Assedio di Acri fu fondamentale l’aiuto dei genovesi che vi avevano condotto un’armata di settanta navi. Venezia prese invece parte alla difesa dell’Impero bizantino, respingendo Boemondo d’Altavilla che stava cingendo d’assedio Durazzo. Cessata questa guerra, Venezia tornò in Levante nel 1110, intervenendo con cento navi all’Assedio di Sidone nell’ambito della Crociata norvegese. Ancora una volta Venezia intervenne per guadagnarsi fette di mercato. Il consolidamento dei domini crociati aveva portato una grande espansione dei commerci di cui Genova e Pisa stavano godendo. Se Venezia si fosse tenuta fuori dalle vicende palestinesi, la forza delle rivali l’avrebbe spazzata via anche dall’Adriatico. Di conseguenza la flotta veneziana lasciò la laguna nell’estate del 1110, giungendo in Palestina ad ottobre, mentre Baldovino stava assediando Sidone. I crociati cingevano la città in una morsa completa, via terra, con le truppe di Baldovino I, e via mare, con la flotta di Sigurd di Norvegia. Le navi norvegesi in quei giorni stavano sbarrando la strada alla flotta fatimide proveniente da Tiro e riuscirono a respingerla con l’inaspettato soccorso dei veneziani. Sidone, isolata, cadde dopo venti giorni, il 4 dicembre 1110.


27 maggio 1294

La battaglia di Laiazzo, fu un episodio del più vasto conflitto che vide contrapporsi la Repubblica di Venezia e la Repubblica di Genova nei secoli XII-XV. La tregua concordata a Cremona nel 1270 fra le tre città di Pisa, Genova e Venezia, garantita da francesi e catalani e pretesa dal papato data la crociata in corso, si era dimostrata fragile, poco più di una sospensione formale delle ostilità. Tanto che Genova rinnoverà nel 1275 il Ninfeo, anti veneziano per definizione, e regolerà definitivamente i conti con Pisa alla Meloria nel 1284, eliminandola dal gioco. Il quadro è di un conflitto strisciante fra i due contendenti rimasti, agito con attività di corsa o con baruffe oltremare, finalizzato soprattutto al controllo degli Stretti quindi alla navigazione nel Ponto con i suoi ricchi mercati di Gazaria, dove la "pax mongolica" aveva creato allo scadere del XI secolo una prosperosa area commerciale che sostituiva con nuove opportunità quella perduta nella zona siriaca. Nel 1293 quattordici galee grosse salpate da Venezia, formalmente per scortare un convoglio mercantile, fanno invece rotta su Cipro e a Limassol colpiscono la base genovese e ne danneggiano la torre. Alla notizia dei fatti, la flotta genovese di Romania, dopo uno scalo a Costantinopoli, passa gli Stretti diretta verso Cipro. Durante la navigazione, i genovesi incrociano una galea cipriota, armata da siriani con veneziani e pisani che quindi abbordano, trovandovi Ottone di Grandson, un importante cavaliere inglese che tenta una mediazione, forte del suo prestigio. Il tentativo non ha successo, lo scontro era inevitabile. Il 27 maggio 1294 davanti alla rada di Laiazzo si affrontano le flotte di Venezia, con 32 galee al comando di Marco Basilio, e di Genova, con 17 galee più un legno minore al comando di Niccolò Spinola. I genovesi, in forte inferiorità numerica, attuano la manovra di infranellatura e si dispongono a ricevere l'attacco davanti al porto con le spalle coperte. I veneziani attaccano quindi a voga arrancata, tentando di rompere lo schieramento utilizzando anche dei brulotti, ammainando le vele mantenendo però gli alberi parzialmente montati e le antenne alte per essere pronti ad inseguire in vantaggio gli avversari, dei quali, data la loro superiorità numerica, presumevano la fuga. Probabilmente fu anche questa modalità di schieramento una delle cause della sconfitta subita; infatti i genovesi resistettero senza sciogliere la formazione e i veneziani si ritrovarono con molte galee di fianco per forza di vento senza riuscire così a speronare i legni nemici. La battaglia durò tutta la giornata, caratterizzata anche dal lancio di proiettili, segno della presenza di macchine belliche a bordo, per finire con la superiorità numerica di Venezia vanificata dalla vittoria di Genova, che prese 25 galee e numerosi prigionieri. Secondo il domenicano Jacopo d'Acqui, fra i prigionieri catturati dai genovesi vi sarebbe stato anche Marco Polo; secondo altri, invece, Polo sarebbe stato catturato nel successivo scontro di Curzola del 1298, anch'esso vinto, con una manovra analoga, dalla flotta di Genova, al comando di Lamba Doria, su quella del veneziano Andrea Dandolo. La battaglia si inserisce come fatto d'arme non definitivo, anzi: i due contendenti corrono ai rinforzi in previsione di un conflitto decisivo che, nonostante le minacce pontificie o tentativi di mediazione di varia estrazione, entrambi cercavano, con conseguenze importanti. Secondo Jacopo da Varagine, Genova arriverebbe ad armare 165 galee per 45.000 uomini, pur dilaniata dalle lotte interne. Ed è ai fuoriusciti, come i Grimaldi a Monaco, che Venezia inizia a guardare, iniziando altresì quel processo di riassetto oligarchico che la porterà, nel 1297, alla serrata del Consiglio. Vari episodi con varie fortune si succedono, come l'incendio di Pera o la battaglia di Curzola, fino alla pace patrocinata dal Vicario Imperiale Matteo Visconti nel 1299, ma con il solo risultato di prostrare le due città con perdite ingenti e blocchi ai commerci, senza che nessuna delle due riesca a prevalere definitivamente, eliminando l'avversario dalle proprie rotte. Presto riprenderanno gli scontri e la rivalità non risolta da guerre né da paci sarà una costante per tutte e quattro le guerre ufficiali e i numerosi conflitti minori che hanno visto la città tirrenica e quella adriatica contrapporsi da San Saba nel 1256 fino alla Pace di Genova del 1406. Altri eventi, come le prime rotte atlantiche a ponente o l'affermarsi della potenza ottomana con la caduta stessa di Costantinopoli nel 1453 a levante, sanciranno una pace davvero definitiva perché priva di interessi in conflitto, con le due Repubbliche costrette a reinventarsi: sulla finanza Genova e sulle proprietà territoriali Venezia.


27 maggio 1796

il Trattato di Sant'Eufemia è un testo molto breve, eppure si tratta del vero atto formale di abdicazione della Serenissima, ben prima che questa abdicazione fosse divulgata e resa ufficiale dalla "Conferenza" del Manin e degli altri congiurati un anno dopo.

Trattato di Sant'Eufemia, 27 Maggio 1796 in Brescia.

  • Articolo Primo La Repubblica di Venezia sarà neutra e non armata per tutto il tempo in cui l'Italia sarà teatro di guerra tra la Repubblica Francese e l'Impero di Germania, e di conseguenza le truppe francesi non incontreranno alcun ostacolo da parte del governo veneziano nelle manovre che effettueranno sulla Terra-Ferma.

  • Articolo 2
    Solo le piazzeforti saranno interdette alle potenze belligeranti, a meno che una di queste potenze venga a impadronirsi con qualche mezzo ostile di una di queste fortezze, nel qual caso l'assedio che sarà posto dall'altra potenza non potrà essere considerato come atto ostile contro la Repubblica di Venezia.

  • Articolo 3
    Nel caso che una di queste potenze si fosse impadronita di una postazione bellica, o di un qualsiasi forte, i Veneziani apriranno immediatamente tutte le altre Piazze di Terra-Ferma all'altra potenza, la quale potrà installarvi una propria guarnigione, la quale guarnigione presidierà le mura e le postazioni esterne, mentre la guarnigione veneziana occuperà l'interno della fortezza con compiti esclusivi di ordine pubblico e polizia. I Comandanti veneziani della Piazza si accorderanno su questo argomento con il Comandante delle truppe introdotte. In questo caso, le guarnigioni veneziane non dovranno prendere alcuna parte nelle operazioni di difesa. Esse potranno bensì evacuare dalle Piazze occupate in questo modo, secondo eventuali ordini dei Provveditori Straordinari in Terra-Ferma.

  • Articolo 4
    In caso di occupazione pacifica come si è descritto nell'articolo precedente, sarà effettuato l'inventario di tutto il materiale d'artiglieria e delle sussistenze che si troveranno nella Piazza. Il Comandante dell'occupazione se ne servirà per la difesa e per il nutrimento delle truppe degli Stati, e a questo riguardo si terrà un conteggio dei consumi rispettivi delle truppe secondo le forme ordinarie.

  • Articolo 5
    L'Armata pagherà a fine guerra, se non potrà farlo prima, ed entro il termine di tre anni dalla firma della pace, la somma di tre milioni di franchi come indennità per i danni inevitabilmente arrecati dalla presenza dell'Armata sui Territori veneti, che sono stimati approssimativamente e irrevocabilmente fissati a forfait. Essa farà inoltre ristabilire a proprie spese, e secondo i piani esistenti, i dettagli degli inventari, gli stati dei luoghi e le fortificazioni che saranno state distrutte mentre era assediante.

  • Articolo 6
    Rimane ben inteso che lordliness e la disciplina nelle truppe saranno tali che i soldati non possano in alcun modo molestare i sudditi della Repubblica di Venezia.

  • Articolo 7
    Il generale Baraguey d'Hilliers è incaricato: - della compilazione, in contraddittorio con i Governatori delle Piazze o forti Veneziani, di tutti gli stati di fatto o inventari di cui si è più sopra parlato; - di identificare la consistenza delle Compagnie di truppe veneziane al fine che non possa sotto alcun pretesto, essere apportato alcun aumento al loro numero; - regolare il prezzo delle munizioni da guerra e da bocca immagazzinate e fissare con il signor Vivanti, banchiere di Venezia, il prezzo delle derrate alimentari necessarie all'armata francese e che saranno da lui stesso consegnate per partite agli agenti dei diversi servizi, senza che questi possano rifornirsi altrove. È stipulato che i conti saranno regolati a ogni mese di 45 giorni, e pagati il più possibile in contanti a soddisfazione del suddetto signor Vivanti.
    Firmato da una parte Bonaparte, Salicetti e Berthier, capi dello stato maggiore generale;
    Dall'altra parte Rocco San Fermo e Benedetti del Bene, per l'eccellentissimo provveditore straordinario in Terra-Ferma, muniti di pieni poteri ad hoc.


  • Articolo 8
    Gli articoli 1,2,3,4,5 e 6 del presente trattato saranno notificati alla corte di Vienna a cura del signor provveditore straordinario in Terra-Ferma, con l'invito ad aderirvi, e nonostante fosse rifiutato, il presente trattato non cesserà di avere piena esecuzione tra le parti firmatarie.
    L'Articolo 8 porta le firme dei soli Bonaparte e San Fermo.
    Come vediamo, il Trattato di Sant'Eufemia è un testo molto breve, eppure si tratta del vero atto formale di abdicazione della Serenissima, ben prima che questa abdicazione fosse divulgata e resa ufficiale dalla "Conferenza" del Manin e degli altri congiurati un anno dopo. A questo Trattato di Sant'Eufemia si informò tutto il susseguente comportamento remissivo del Governo di Venezia. L 'abdicazione di Venezia alla Sovranità sui propri Domini è già esplicitamente dichiarata nel primo Articolo. La Serenissima permetterà a due Potenze in guerra tra loro di usare i suoi Territori per le loro operazioni belliche, e questo sarebbe in sé mostruoso anche se si fosse trattato di una guerra convenzionale condotta con sussistenze proprie da entrambe le parti. Al contrario, era ormai arcinoto che l'Armata Napoleonica si alimentava con i metodi dell'orda barbarica, ovvero saccheggiando e depredando i paesi che attraversava o veniva a occupare.