4 gennaio 1432

I naufraghi della Querina arrivano nell' isola di di Sandøy. Il 25 aprile 1431 Pietro Querini di Sandrigo (VI) salpò da Candia verso le Fiandre a bordo della caracca la Querina,” derivata da una nave sperimentata non a caso dai Genovesi, che sono per natura capaci di navigare in acque profonde, mentre i Veneziani per molti secoli si accontentarono delle galee derivate dalle navi romane a remi, che non avevano grossi problemi nel Mediterraneo, soprattutto quello orientale dominio di Venezia, ma inadatte al periplo dell’Africa ed ancor più alla navigazione in oceano aperto in Atlantico, Indiano, o Pacifico) un carico di 800 barili di Malvasia, spezie, cotone, cera, allume di rocca e altre mercanzie di valore, pari a circa 500 tonnellate. L’equipaggio era composto da sessantotto uomini di diverse nazionalità. Suoi luogotenenti erano Nicolò de Michele, patrizio veneto, e Cristofalo Fioravante, comito. Il 14 settembre, superato Capo Finisterre, vennero sorpresi da ripetute tempeste (che ruppero più volte il timone, punto debole della nave) e furono spinti sempre più verso ovest, al largo dell’Irlanda: qui si ruppe di nuovo il timone e la nave restò disalberata, andando alla deriva per diverse settimane, trasportata dalla Corrente del Golfo. Il 17 dicembre l’equipaggio decise di abbandonare il relitto semiaffondato e si divise, tirando a sorte: 18 si imbarcarono su uno schifo (sorta di scialuppa) e 47 su una seconda lancia, più grande, comprendente i tre ufficiali. Della prima imbarcazione non si ebbe più alcuna notizia, subito dopo la prima notte, ma la lancia più grande andò a lungo alla deriva, fra razionamenti di viveri, sfinimenti ed impazzimenti, e i marinai che bevevano la mortale acqua salata e quindi decessi continui, toccando fortunosamente terra il 4 gennaio 1432 nell’isola deserta di Sandøy, vicino a Røst nell’arcipelago norvegese delle Lofoten, con soli 16 marinai superstiti! Il Querini e i suoi compagni vissero per undici giorni bivaccati sulla costa nutrendosi di patelle e accendendo fuochi per scaldarsi. Finché furono avvistati dai pescatori dell’isola di Røst, la più vicina, che andarono in loro aiuto e li ospitarono nelle loro case. La popolazione dell’isola che i veneziani chiamarono Rustene, circa 120 abitanti, era dedita alla pesca e all’essiccazione del merluzzo. I veneziani rimasero circa quattro mesi nell’isola, e Querini scrisse una dettagliata relazione per il Senato, oggi conservata nella Biblioteca Apostolica Vaticana. Il 15 maggio 1432 il Querini venne aiutato dai pescatori a ripartire verso Venezia, portando con sé stoccafissi seccati. Durante il viaggio di ritorno passò per Trondheim, Vadstena e Londra, dove fu ospite dell’allora potente comunità veneziana che risiedeva sul Tamigi. Da lì, dopo 24 giorni di cavallo, il “capitano da mar” giunse finalmente a Venezia il 12 ottobre 1432. Vi importò l'idea dello stoccafisso, che godette subito di un grande successo e che i veneziani impararono ad apprezzare, sia per la sua bontà gastronomica che per le sue caratteristiche di cibo a lunga conservazione, molto utile sia nei viaggi di mare che di terra, oltre che per la caratteristica di essere un “cibo magro”, così da divenire uno dei piatti consigliati negli oltre 200 giorni di magro, fissati, assieme ai cibi, il 4 dicembre 1563, data della XXV e ultima sessione del concilio di Trento. Gli abitanti di Røst da allora hanno sempre nutrito una grande riconoscenza verso Pietro Querini, tanto che nel cinquecentesimo anniversario del naufragio hanno eretto un cippo in suo onore nell’isola di Sandøy. A Røst un isolotto è stata chiamata “isola di Sandrigo”, in ricordo della cittadina in provincia di Vicenza, dove si tiene annualmente la Festa del baccalà, il piatto tradizionale della cucina vicentina a base di stoccafisso proveniente dalle isole Lofoten. Per converso, a Sandrigo una piazza è stata dedicata a Røst.


4 gennaio 1504

Fra i primissimi provvedimenti emanati dal Senato Veneto per la città di Rimini si segnala un vero “condono tombale” Rimini appartiene ufficialmente alla Serenissima dal 16 dicembre 1503. Fra i primissimi provvedimenti emanati dal Senato Veneto per la città si segnala un vero “condono tombale” datato 4 gennaio 1504:
“Che niuno cittadino, ovvero abitante della città e del contado, possa essere chiamato in giudicio, nè molestato realmente o personalmente ad istanza di forestiero alcuno dentro lo spazio di cinque anni avvenire, nè procedere criminalmente contro alcuno dè suddetti per la qual si sia delitto commesso prima che Rimini fosse in potere della Serenissima Repubblica, acciocchè sia permesso a chi vorrà nell’avvenire rettamente vivere nella Città o Contado, sicuramente abitare, e pacificamente possedere, e godere i suoi beni legittimamente non confiscati”.
Cesare Clementini, che scriveva un secolo dopo i fatti, sottolinea che questo atto non fu richiesto dai Riminesi, ma rappresentò un’iniziativa dei governanti veneziani per pacificare una città che veniva da lunghi anni di turbolenze e lotte fra fazioni. Siamo al tramonto della signoria dei Malatesta. L’ultimo di loro è Pandolfo IV, che si è meritato l’appellativo di Pandolfaccio. Era stato costretto una prima volta, nell’ottobre del 1500, a vendere i suoi domini a Cesare Borgia, che stava debellando uno a uno i signorotti romagnoli per riportare la regione sotto il controllo diretto di suo padre, papa Alessandro VI. I Riminesi accolsero il Duca Valentino come un liberatore, dopo il clima di terrore cui li aveva sottoposti Pandolfaccio. Alla morte del papa, il Malatesta riesce però a rientrare nei suoi domini, abbandonandosi a sentenze capitali e condanne all’esilio. Ma nemmeno la violenza riesce più a contenere la ribellione dei sudditi, che del loro signore non ne vogliono più sapere. Si intavola così una trattativa con la Repubblica di Venezia, da sempre amica dei Malatesti e cui la reconquista papale proprio non va giù: ha già occupato mezza Romagna proprio per frenare le velleità di Roma da una parte, di Fireze dall’altra, che sempre più sta debordando oltre. Nonostante i titoli alquanto dubbi che il Malatesta poteva vantare – era pur sempre un Vicario della Santa Sede, non un feudatario per diritto ereditario – l’affare va in porto: quanto resta dello “Stato” malatestiano, comprese Meldola e Sarsina, viene venduto per 10 mila ducati d’oro, più altri 4.500 per la rocca e e suoi armamenti e diverse prebende e privilegi per la famiglia dell’ex signore. Il quale inoltre riceve “in perpetuo” anche Cittadella, nel Padovano, quale feudo personale. Il “condono” non fu l’unico provvedimento con cui la Serenissima si presentò a Rimini. In un impeto di quello che oggi si direbbe liberismo, furono aboliti tutti i dazi e le gabelle, resa libera la navigazione da e per il porto riminese con qualsiasi tipo di mercanzia, estese a tutto l’anno le esenzioni fiscali per il commercio, sia via terra sia via mare, prima previste soltanto per i periodi di fiera. I Riminesi possono poi richiedere dall’Istria tutto il legname di cui abbiano bisogno, mentre pagheranno un prezzo di favore per il sale di Cervia. Misure di consenso, ma anche ricostituenti per un’economia che doveva essere piuttosto mal ridotta. Un albero di nave fu piantato all’imboccatura del porto per farvi sventolare il vessillo oro e porpora del Leone di San Marco. Durante il governo veneto, a Rimini erano stanziate due galee armate. Il governatore Malipiero condusse un minuzioso censimento delle opere di difesa, che oggi costituisce un prezioso documento soprattutto per la descrizione di tutti i castelli del contado. Ne esce un quadro piuttosto desolante: i castellani sono sovente “poveri huomini”, le mura “dirute“, le torri “ruinate“, gli armamenti scarsi e antiquati; lo stesso Castel Sismondo, che pure conta appena 50 anni, ha bisogno urgente di restauri e probabilmente ha già avuto tutte le sue torri mozzate, ormai troppo alte per i progressi delle artiglierie. Ma i Dogi non avranno il tempo per attuare il loro risanamento. Il 14 maggio 1509, ad Agnadello fra Cremona e Bergamo, Francia, Impero e S. Sede uniti nella Lega di Cabrai infliggono una pesante sconfitta ai Veneziani. Il Senato della Repubblica deve restituire al Papa tutte le terre romagnole, Rimini in testa. Inizia il governo diretto della Santa Sede, che sarebbe durato fino al 5 febbraio 1860.