28 febbraio 1297

Serrata del maggior consiglio - Erano eleggibili tanto quelli che appartenevano alla vecchia aristocrazia, quanto quelli della gente nuova, ma la parità di trattamento di fatto non esisteva. In una seduta del Maggior Consiglio, dopo essere stata preparata in gran segreto, il 5 ottobre 1286 venne presentata una proposta: potevano entrare nei consigli della Repubblica solo coloro che già vi erano appartenuti. Chi non aveva questi requisiti poteva essere eletto, salvo ratifica a maggioranza assoluta della Signoria e del Maggior Consiglio. Si evitava in questo modo di escludere formalmente gli "homines novi" dalla vita politica, ma in pratica si rendevano impossibili pericolose infiltrazioni. Tuttavia la proposta non venne accettata, raccogliendo tra i 140 membri presenti in Maggior Consiglio 82 voti contrari, 48 favorevoli e 10 astenuti («...fuerunt decem non sincere, quadriginta octo de parte de XL et octoginta duo de stare firmi.») Le forze dell'aristocrazia in campo erano ancora incerte ed indecise e non vi fu una figura forte, coraggiosa e carismatica che sapesse iniettare la necessaria fiducia. Infatti il doge Giovanni Dandolo restò debole spettatore e di fronte alla proposta fu lui stesso che consigliò «...de stare firmi.» (di stare fermi). Qualche giorno più tardi venne portata in Consiglio una seconda proposta che appariva di compromesso rispetto alla prima: mantenendo l'antico principio di uguaglianza, i candidati dovevano essere scelti uno per uno dal Maggior Consiglio e quelli approvati dovevano passare al ballottaggio tanto nella Signoria quanto nella Quarantia. La proposta non passò probabilmente per l'influenza della fazione tiepolesca. Il Maggior Consiglio rimase così inerte, incerto, ondeggiante, di fronte alla frattura ormai evidente nell'aristocrazia ed alla pressione popolare. Occorse un fatto nuovo per sbloccare la situazione: il 2 novembre 1289 morì il doge Giovanni Dandolo. In altri tempi l'elezione del nuovo doge sarebbe stata un'occasione solenne e festosa per riaffermare la supremazia della Repubblica. Ma in un tale momento delicato non solo l'aristocrazia, ma anche il popolo, comprendevano come in questa elezione si sarebbe giocata tutta una partita che era in corso ormai da decenni. Venne proclamata la candidatura di Jacopo Tiepolo: gli "homines novi", ovvero le classi popolari arricchitesi, videro in questa candidatura la possibilità di inserirsi nella vita politica. La frattura tra i Tiepolo, con le altre famiglie a loro vicine, ed il resto dell'aristocrazia divenne incolmabile e fu vista come un tradimento dei principi di solidarietà che dovevano vigere tra la nobiltà. Non ci fu più il tempo per dubbi ed incertezze: il 25 novembre 1289 la maggioranza del Consiglio si coagulò attorno al nome di Pietro Gradenigo, podestà di Capodistria, a differenza del suo predecessore Giovanni Dandolo, uomo risoluto ed energico. Il Gradenigo era una personalità fedele ai principi aristocratici e deciso a difenderli. Il periodo di crisi istituzionale che attanagliava Venezia all'interno coincideva con un'altra crisi nella politica estera. C'era soprattutto il conflitto con Genova che si trascinava senza che nessuna delle due potenze dimostrasse una gran voglia di arrivare allo scontro finale ed anche l'azione diplomatica veneziana appariva rallentata, quasi riflettesse la debolezza e le incertezze della politica interna. Sette anni dopo l'elezione a doge di Pietro Gradenigo prevalse finalmente la volontà di uscire dalla crisi. Il 6 marzo 1296 venne riportata in Maggior Consiglio la proposta di dieci anni prima. Ancora una volta non venne approvata, ma con dei numeri diversi: il partito dei Tiepolo votò contrario, ma aumentò il numero dei voti a favore e degli astenuti: «...posita est pars de novo quam posuerant capita de XL anno 1286 oct. 5, et erant pro parte 178, pro stare firmi 136, dubii 52.» Ma ormai si lavorava tra le quinte per superare le difficoltà mentre Venezia cominciava a riacquistare la propria potenza nell'Adriatico orientale: Rogero Morosini Malabranca e Marco Michiel padroneggiavano nell'Egeo, saccheggiando Pera, conquistando Foggia nell'Asia Minore, Caffa sul Mar Nero, prendendo il controllo dell'oriente greco e genovese. Riconquistata la fiducia nelle proprie forze, nel 1296 le elezioni del Consiglio si svolsero con le vecchie regole, ma ormai la riforma era pronta e venne votata in Maggior Consiglio il 28 febbraio 1297. La sostanza non cambiava rispetto alla proposta dell'anno prima, ma l'esclusione popolare era meglio mascherata: erano eleggibili tanto quelli che appartenevano alla vecchia aristocrazia, quanto quelli della gente nuova, ma la parità di trattamento di fatto non esisteva. Chi era appartenuto al Maggior Consiglio negli ultimi quattro anni vedeva confermato il proprio diritto, seppure assoggettato ad una conferma formale della Quarantia, la quale costituiva una forma di controllo preventivo contro eventuali elementi aristocratici che potessero costituire un pericolo per la Repubblica. Mentre essere appartenuti al Maggior Consiglio negli ultimi quattro anni era un elemento oggettivamente verificabile, per rientrare nel gruppo degli eleggibili provenienti dalla "gente nuova" ci si affidava a criteri meno oggettivi: infatti il Maggior Consiglio "doveva" nominare tre elettori, i quali "potevano" eleggere, secondo le istruzioni della Signoria, un numero di membri che non rientrava nel primo gruppo. Essere scelti significava aver superato una vera e propria elezione, ma non bastava: anche questi dovevano ricevere la conferma della Quarantia che diventava così un ulteriore controllo per evitare l'ingresso in Maggior Consiglio di elementi che potevano turbare l'ordine aristocratico. Il nuovo sistema costituzionale, entrato subito in vigore, formalmente aveva un carattere provvisorio che sarebbe durato fino al 29 settembre 1298. In questa data il Maggior Consiglio avrebbe potuto revocarlo, anche se era richiesta una maggioranza molto alta. Si aggiunga a questo il fatto che le nuove elezioni si svolsero con il nuovo sistema e quindi con la maggioranza aristocratica compatta contro le fazioni avversarie. La nuova legge elettorale venne confermata per un altro anno e poi venne confermata definitivamente portando a termine l'ultimo tassello della costituzione veneziana che sarebbe restata pressoché immutata fino alla caduta della Repubblica. Formalmente la costituzione del 1297 non creava una casta chiusa, ma consolidava il potere nelle mani di coloro che se ne erano impadroniti dando la possibilità di trasmetterlo ai propri discendenti ma anche a coloro che, provenendo da altre classi sociali, avessero dimostrato fedeltà alla Repubblica e capacità di governo. Di fatto nei primi dcenni del XIV secolo, senza fretta, passarono una serie di norme che resero praticamente difficile, se non impossibile, l'ingresso di "homines novi" negli organi di governo, trasformando l'aristocrazia in una sorta di casta assolutamente chiusa della quale il Maggior Consiglio ne rappresentava l'espressione. E' intuibile che di fronte a questa riforma si sentirono colpiti tutti coloro che vedevano preclusa la strada che poteva portarli a soddisfare i propri interessi particolari, le proprie ambizioni. Così in quegli stessi anni, cessata momentaneamente la guerra con Genova (pace di Milano del 1299) si consumarono alcune congiure, quella di Marino Bocconio (della quale poco si conosce) e più tardi quella più clamorosa di Bajamonte Tiepolo e di Marco Querini della Ca' Granda: ma più che di congiure animate da ideali politici, si trattava piuttosto degli ultimi strascichi del vecchio spirito di fazione tiepolesca-queriniana che stava spegnendosi.