8 febbraio 1514

Daniele Barbaro nasce a Venezia, figlio di Francesco ed Elena Pisani, membro di una delle più prestigiose famiglie patrizie del suo tempo, studiò filosofia, matematica e ottica all'Università di Padova; fu ambasciatore della Serenissima presso la corte di Edoardo VI a Londra e rappresentante di Venezia al Concilio di Trento a partire dal 14 gennaio 1562 fino alla sua chiusura nel 1563. Fu coadiutore dello zio Giovanni Grimani presso il Patriarcato di Aquileia e il 17 dicembre 1550 venne promosso in concistoro a patriarca "eletto" di Aquileia anche se non assunse mai la guida del patriarcato perchè morì a Venezia nel 1570. Scrisse le Exquisitae in Porphyrium commentationes (1542), un commento alla Retorica di Aristotele nella traduzione latina dello zio Ermolao (1544), il dialogo Dell'eloquenza (datato 1557, ma in realtà finito nel 1535 circa) cui fece seguire, tra l'altro, la traduzione dell'Architettura di Vitruvio accompagnata da un commento e dalle splendide illustrazioni di Andrea Palladio di cui era amico (1556). La pratica della perspettiua (1568) resta la sua opera più originale ma lasciò anche frammenti di una storia veneziana in volgare dal 1512 al 1515. L'incisione che qui lo rappresenta, è di mano di Giuseppe Barni (incisore milanese attivo fra il 1837 e il 1850); nella tavola del Veronese che si trova invece nella sezione Cronologia, il prelato, vestito degli abiti sacerdotali e con la mozzetta in capo, è seduto al tavolo di lavoro su cui sono aperti proprio i volumi della sua traduzione di Vitruvio.


8 febbraio 1514

la Serenissima istituì una magistratura chiamata “Provveditori delle pompe e leggi suntuarie”, formata da tre patrizi e da due “Sopraprovveditori”. Lo scopo era il contenimento dell’uso di oggetti preziosi e di lusso e dello sfoggio degli stessi. Questa magistratura, che seguiva analoghe iniziative nate fin dal 13° secolo, doveva imporre comportamenti morigerati nelle persone di qualsiasi classe sociale, per evitare l’eccessivo lusso che comprometteva i patrimoni e induceva il popolo a contrarre debiti per emulare i comportamenti di chi poteva permettersi l’acquisto di tali preziosi ornamenti. Lo sfarzo eccessivo delle famiglie patrizie veneziane, e non solo, era aumentato a dismisura col rischio di minare le barriere fra classi ed appartenenze sociali ed entrare in contrasto con la moralità invocata dalla Chiesa, tradizionalmente contro “le fantastiche stravaganze della moda”. Pur essendo Venezia una città libera, ricca e più clemente delle altre, anch’essa si dotò di leggi suntuarie e di apposite commissioni atte a reprimere le pompe, i fasti e i lussi eccessivi. Le leggi suntuarie produssero molte regole atte a prescrivere il genere di vesti da usare e quelli da cui astenersi, vennero regolamentate le spese che si potevano fare per le gondole, per le camere da letto, per i banchetti, i funerali, ecc… Nera doveva essere la veste dei patrizi, nere le toghe degli avvocati e dei medici, neri i domino (veli per viso) e le cappe usate dalle nobildonne e dai ministri forensi e numerosi paramenti per le feste. Sempre il Magistrato delle Pompe, impose che tutte le gondole fossero dipinte di nero, compreso il felze o le altre coperture. I dispositivi legislativi limitarono il lusso nella moda maschile e femminile ed obbligarono determinati gruppi sociali ad indossare segni distintivi. Un’apposita magistratura, i “Provedadori sora le Pompe de le Donne”, venne istituita il 17 novembre 1476 per controllare e limitare il lusso nelle donne. Non dovevano usare abiti in seta, trecce e vesti con lo strascico, oro o argento o perle in testa, le maniche non dovevano essere troppo lunghe ed avere su di esse le perle. Era vietato anche l’uso di gioielli al collo. Dovevano essere castigati i padri per le figliole disobbedienti, i mariti per le mogli, e se il reo fosse stato nobile, ne avrebbero pubblicato la colpa nelle adunanze del Consiglio Maggiore. Esistevano guardie delegate al controllo delle disposizioni emanate, che a volte potevano entrare nelle case, raccogliere le lettere dalle bocche di leone e raccogliere le denunce dirette premiando il denunciante. Le reazioni delle donne, bersaglio preferito dei legislatori, furono a volte di esplicita protesta, a volte di furbi accomodamenti, come quando nascondevano lo strascico con spille per poi scioglierlo alla prima occasione favorevole. Le proteste femminili non mancavano, si narra che nel 1499, alcune nobili veronesi fecero apporre sui muri scritte ingiuriose del tipo: Bechi fotui no vedè quelo che gavè in casa. Non sempre si applicavano le sole multe ai trasgressori, ma si poteva arrivare al sequestro dell’oggetto incriminato, alla prigione o perfino all’esilio, minacciando i sarti colpevoli di produrre capi vietati ed allontanandoli perpetuamente dalla città. In quanto all’efficacia di queste proibizioni sembra fosse assai scarsa, visto anche il fatto che le leggi venivano reiterate nel tempo e che le botteghe artigiane continuavano a produrre indumenti vietati. Non per ultime furono colpite le prostitute, non quelle di basso rango che non avevano un vestiario uniforme data la loro bassa disponibilità economica, e che usavano un abbigliamento “piuttosto al virile”, come giubboni di tela, camicie e braghe da uomo.


8 febbraio 1537

Girolamo fu colpito da epidemia il 4 febbraio 1537, e l’8 dello stesso mese morì a Somasca, attorniato dai suoi confratelli, amici e orfani. Dalla nobile famiglia degli Emiliani, Girolamo nasceva in Venezia nel 1486. L'infanzia e la giovinezza sua ci sono quasi totalmente ignote e solo nel 1511, quand'ormai ha trent'anni, lo troviamo capitano della repubblica di Venezia. alla difesa di Castelnuovo, importante fortezza trevisana. Quivi esplicò tutto ii suo valore e tutta la sua arte di avveduto capitano, ma assalito da forze francesi di gran lunga superiori dovette arrendersi. I vincitori, avuto Girolamo nelle mani, lo caricarono di catene e lo gettarono in prigione. Perduta ormai ogni speranza negli aiuti umani, ii poveretto si rivolse fiduciosamente a Maria, promettendole con voto di recarsi scalzo al suo santuario di Treviso per ivi deporre ai suoi piedi le catene e la spada qualora fosse stato liberato. La Madonna l'ascoltò, e Girolamo riconoscente corse a soddisfare la promessa, tornando in patria totalmente mutato. All'ardor bellicoso di prima aveva sostituito una grande carità verso Dio ed amore verso i poveri. Morto suo fratello Luca, egli si prese cura dei tre nipotini rimasti orfani e da qui gli venne l'idea di fondare i Chierici Regolari Somaschi per soccorrere gli orfani. Vedendo infatti tanti piccoli abbandonati, perché privi di genitori e di aiuto, pensò di erigere un istituto per soccorrerli nei loro bisogni corporali e spirituali. Ben presto però l'edificio fu troppo angusto per ospitare tutti gli orfani che accorrevano, e Venezia, Verona, Bergamo, Brescia ed altre città dovettero alla carità del Santo se le loro vie furono sgombre di tanti bambini che prima imparavano il vizio. Anime generose, attirate da si nobili virtù, vollero seguire S. Girolamo e così nel paesello di Somasca (Bergamo) egli iniziò la sua Congregazione di Chierici Regolari detti Somaschi. Poi si diede a visitare importanti città per fondare altri istituti e sollevare quanti più potesse: così fu a Milano, a Pavia ed altrove. Prima di morire volle ancora una volta visitare i suoi istituti, e le popolazioni in massa accorsero per vederlo, per potergli baciare l'abito e ricevere la sua benedizione. Così, l'umile istitutore che aveva voluto fuggire la gloria del mondo, passava ammirato e benedetto da tutti. Si ritirò poi definitivamente in Somasca ove terminò la sua beata vita 1'8 febbraio del 1537 a 55 anni.