11 febbraio 11162

Vittoria della Serenissima su Ulrico, patriarca di Aquileia che assieme ad alcuni feudatari friulani assalì la città di Grado, costringendo il suo patriarca Enrico Dandolo a rifugiarsi a Venezia. Lì ottenne aiuto militare dall'allora Doge Vitale Michieli II che in breve disperse gli eserciti e catturò l'Ulrico. Per liberarsi dalla prigionia questi dovette promettere di pagare ai veneziani un tributo annuale di dodici pani, dodici porci ed un toro...(!). Da allora nel giorno di giovedì grasso, anniversario della vittoria, i porci ed il toro che giungevano a Venezia venivano condannati a morte mediante decapitazione da un vero magistrato e la sentenza veniva pubblicamente eseguita in piazza S.Marco. Le carni dei "criminali" venivano quindi distribuite tra i senatori della Repubblica, mentre i pani venivano distribuiti nelle Serenissime prigioni. Sotto il doxe Giacomo Contarini eletto nel 1275 fo deliberato che de li porci che si amazza al Zuoba de la cazza se mandasse un pezzo de la carne dei diti porci a la casa di cadaun zentilhomo, che si adimandava li zozoli. I principali esponenti dello Stato, Doge in testa, erano protagonisti di un'altra singolare cerimonia: in una sala del palazzo Ducale venivano allestiti dei modelli di castelli in legno raffiguranti quelli dei feudatari di Ulrico; prese delle mazze ferrate i dignitari si sollazzavano nello sfasciare tutto... a perenne ricordo della batosta inflitta ai friulani. L'intera faccenda continuò fino al 1420 (data di estinzione del potere temporale dei patriarchi di Aquileia) ma, nonostante il tributo non venisse più versato, lo Stato continò a fornire porci e tori per il popolo con i fondi del Tesoro della Repubblica. All'esecuzione seguivano i festeggiamenti quali "forze d'Ercole", acrobazie quali lo "Svolo del turco" e danze quali la "Moresca" (danza guerriera).


11 febbraio 1344

I trevigiani non vollero essere considerati sottomessi contro la loro volontà dai fratelli Veneziani per conquista armata (come fecero Scaligeri e Austriaci) per questo con atto pubblico essi si dichiararono: riconoscenti a Venezia per la materna opera sua e con una unanime deliberazione del consiglio dei Trecento, le cedettero spontaneamente la città, i castelli, i beni, le regioni e le giurisdizioni. Il periodo di pace durò poco e nel 1381-84 dopo lungo assedio fu conquistata dagli Austriaci, i quali la vendettero alla signoria dei Francesco da Carrara (1384-88). Ma i Trevigiani non ci stettero e desiderando il ritorno del buon governo Veneto insorsero al grido di: “Viva il popolo di Treviso e muoia il Carrarese che ci ha sempre derubato!” La sommossa ebbe come epicentro la piazza del Carbuio, l’attuale piazza dei Signori, ed il 29 Novembre 1388 migliaia di insorti provenienti dalla campagna trevigiana e dalla laguna veneta gridavano per le strade: “Vivat Beatus Evangelista Noster Sanctus Marcus Venetus” (Viva il Beato Evangelista, il nostro San Marco Veneto). Si formò subito un governo provvisorio e, cacciato Francesco il Vecchio da Carrara, si diedero spontaneamente alla Repubblica Veneta; tale dominio durò fino al tragico 1797.


11 febbraio 1806

Napoleone non volle sentir ragioni emanò furioso un decreto, attraverso il quale i cittadini di Crespino erano stati privati della cittadinanza. facciamo un passo indietro: Era il 20 ottobre 1805 e Crespino sottostava all’impero francese guidato da Napoleone Bonaparte. In questo periodo l’aumento delle tasse e le rigide leggi del codice Napoleonico, unite alla leva obbligatoria che toglieva i braccianti dai campi, portarono all’inisurrezione. In quei mesi Napoleone era impegnato nella campagna contro l’Austria, Inghilterra e Russia. A Crespino giunse la voce che un’avanguardia tedesca era arrivata a Rovigo dove aveva sconfitto i francesi. All’arrivo di due cannoniere austriache nel porto di Crespino, la popolazione si sollevò in massa. I contadini si diressero verso il municipio situato all’epoca in Piazza XX settembre (attuale ristorante Al pescatore da Aligi) ed iniziarono ad abbattere gli stemmi napoleonici e l’albero della libertà. In segno di gratitudine, si esposero le bandiere austriache in tutto il Paese. Nel frattempo, gli amministratori comunali, impauriti, si asserragliarono nel palazzo della Pretura ma il popolo non si arrese ed abbatté le porte di ingresso. Entusiasti della protezione austriaca, gli interventisti si diressero verso gli uffici amministrativi ed iniziarono a distruggere i documenti di leva, l’anagrafe e le bandiere. Gli assessori presenti in comune dovettero scappare. Tra gli assessori che corsero al riparo ricordano Agujari e Giacomo Reali. Il primo si gettò dalla finestra e inizio a correre ma ben presto la folla lo raggiunse e lo calpestò. Un ufficiale tedesco mosso da compassione, soccorse l’assessore ricoperto di sangue e lo portò al riparo. I crespinesi inviperiti iniziarono a scardinare le porte, le finestre ed i mobili, lasciando intatti solo i muri. Furono prese d’assalto nello stesso modo pure la casa degli amministratori Agujari e Reali che erano uno degli l’oggetti della rivolta. A mezzogiorno del 20 ottobre 1805 arrivò una squadra di fanteria tedesca, formata da 30-40 uomini. L’allora parroco Pietro Colla chiese subito quattro soldati per proteggere la torre campanaria, onde evitare che gli interventisti potessero accedere alle campane. Gli ufficiali austriaci chiamarono gli esponenti politici e gli intimarono di procurare del cibo per tutti i soldati. L’occupazione di Vienna e le continue vittorie di Napoleone in Germania, costrinsero gli austriaci a ritirarsi oltre l’Adige. Tornarono così i francesi che occuparono militarmente il territorio, ristabilendo la situazione. Pochi giorni dopo, il consigliere di Stato Aldini informò Napoleone di quanto accaduto.L’11 febbraio 1806 l’imperatore dei francesi e re d’Italia scrisse il decreto che punì i crespinesi. Dopo poco più di un mese, il 21 marzo, un’ulteriore lettera arrivò in comune a Crespino. Quest’ultima diceva :
“non tollero che si manchi di tale materia. Le mie bandiere vennero insultate, i miei nemici accolti con festa, il delitto non può espiarsi che con il sangue”