21 ottobre 1556

Nella sua casa in Riva del Carbon a Rialto muore per apoplessia Pietro Aretino. Nasce ad Arezzo il 20 aprile del 1492. Il suo cognome è fittizio ed è soltanto un omaggio alla sua città natale: difatti delle sue origini si sa poco anche perché lui stesso le tiene nascoste, ma si dice che sia figlio di una cortigiana e di un calzolaio. In ogni caso Pietro viene al mondo in un anno che, per l'Europa e l'Italia è uno spartiacque: gli stati regionali italiani si dimostrano deboli e disuniti di fronte al Regno di Francia e all'Impero asburgico, ma allo stesso tempo fiorisce la grande cultura cortigiana e le arti come la pittura, la scultura e l'architettura raggiungono vette espressive ineguagliate, mentre la diffusione della stampa a caratteri mobili inventata da Gutemberg propizia la diffusione dei libri come mai prima nella storia dell'umanità. Dopo un periodo giovanile trascorso a Perugia dove compone le sue prime poesie giovanili in stile petrarchesco, si trasferisce a Roma nel 1517, prima a servizio di Agostino Chigi e poi del cardinale Giulio de' Medici. Nei suoi primi anni a Roma è noto soprattutto per lo scrivere pasquinate per farsi beffe di papa Adriano VI, eletto successore dell'energico Leone X. Questi componimenti satirici e corrosivi gli creano non pochi problemi, al punto che è costretto a lasciare la città e a girovagare per l'Italia fino quando, nel 1523, il suo antico signore Giulio de' Medici viene eletto papa col nome di Clemente VII. Tornato a Roma riprende la sua attività letteraria: è di questo periodo la prima redazione manoscritta de La Cortigiana, una commedia in cui gli intrecci amorosi sono assai ricchi di allusioni sessuali ed in cui viene dipinta una Roma, la città in cui si svolgono i cinque atti, preda del caos e, come dice uno dei protagonisti, teatro di una buffa commedia che si svolge quotidianamente sotto gli occhi degli spettatori. L'Aretino è anche autore, in questo periodo, di sedici Sonetti lussuriosi a tema erotico che accompagnano altrettante tavole dell'incisore Marcantonio Raimondi. Il tono fortemente licenzioso dei sonetti e delle illustrazioni attirano l'ira del potente vescovo Gian Matteo Giberti che nell'estate del 1525 lo fa accoltellare da un suo sicario. L'Aretino sopravvive a stento e in quell'anno decide di abbandonare Roma per sempre. Nel 1527 si trasferisce a Venezia dove passa il resto della sua vita. La Serenissima è un centro culturale particolarmente attivo perché gode di una forte indipendenza dalla censura papale ed è uno dei principali centri di diffusione in Italia del libro stampa: difatti qui hanno sede alcune tra le più importanti aziende editoriali del periodo. Qui comincia la parte più intensa della produzione letteraria dell'Aretino, segnata da scritture e pubblicazioni continue dei più diversi generi: dall'opera teatrale al dialogo fino alle opere di argomento religioso. Una quantità ed una varietà di opere che si spiega con la volontà dell'Aretino di costruire una forte immagine di sé stesso per affermarsi come scrittore indipendente, in grado di vivere dei guadagni che gli provengono dalla pubblicazione delle sue opere; un'indipendenza che si misura anche nelle continue satire verso la Chiesa ed i vari signori dell'Italia cinquecentesca e che gli valgono la fama di «flagello dei principi», oltre che le simpatie di Carlo V e di Francesco I di Francia. Muore a Venezia il 21 ottobre 1556.


21 ottobre 1866

Il plebiscito che sancì l’annessione del Veneto all’Italia viene liquidato dai nostri libri di storia in poche battute visto che la storiografia ufficiale sostiene che “tutto si svolse con mirabile ordine e fra universali manifestazioni di gioia”. Il Veneto in realtà era già stato “passato” dalla Francia all’Italia in una stanza dell’Hotel Europa lungo il Canal Grande, il 19 ottobre. Il generale francese Leboeuf consegnò il Veneto a tre notabili: il conte Luigi Michiel, veneziano, Edoardo De Betta, veronese, Achille Emi-Kelder, mantovano. Questi, a loro volta, lo “deposero” nelle mani del commissario del Re conte Genova Thaon di Revel e il giorno dopo sulla “Gazzetta di Venezia” apparve un anonimo trafiletto: “Questa mattina in una camera dell’albergo d’Europa si è fatta la cessione del Veneto”. Riepilogando: un trattato internazionale (fra Austria e Prussia, 23 agosto a Praga) prevede il passaggio del Veneto alla Francia che poi lo consegnerà ai Savoja; nel trattato di pace di Vienna fra l’Italia e l’Austria del 3 ottobre si parla testualmente di “sotto riserva del consenso delle popolazioni debitamente consultate”:un riconoscimento internazionale al diritto all’autodeterminazione del popolo veneto che in quel momento ha la sovranità sul suo territorio. Teniamo anche presente che c’è stata l’ipotesi, come scrisse l’ambasciatore asburgico a Parigi Metternich al suo ministro degli esteri Mensdorff-Pouilly il 3.8.1866, di arrivare a “l’indipendenza della Venezia sotto un governo autonomo com’era la vecchia Repubblica”. Il plebiscito avrebbe dovuto svolgersi sotto il controllo di una commissione di tre membri che “determinerà, in accordo con le autorità municipali, il modo e l’epoca del plebiscito, che avrà luogo liberamente, col suffragio universale e nel più breve tempo possibile”. Così era stato concertato dall’ambasciatore d’Italia a Parigi Costantino Nigra con il governo francese, che sembrava determinato a svolgere fino in fondo il proprio ruolo di garante internazionale sancito anche dal trattato di pace fra Prussia e Austria..Il governo italiano invece, e in particolare il presidente Bettino Ricasoli interpretava pro domo sua i trattati: “Quando si tratta del plebiscito si tratta di casa nostra; non è già che si faccia il plebiscito per obbedienza o per ottemperare al desiderio di qualche autorità straniera….. La pazienza ha il suo limite. Perbacco! La cessione del Veneto fu nel Parlamento inglese chiamata un insulto all’Italia. Concedendo la presenza del generale francese all’effetto delle fortezze, mi pare di concedere molto” così sosteneva il Barone Ricasoli. E così uno sconsolato generale Le Boeuf scrive a La Valette il 15 settembre: “Nutre inquietudini per l’ordine pubblico: le municipalità fanno entrare le truppe italiane o si intendono col re, che governa una gran parte: egli deve lasciar fare. Il plebiscito non si potrà fare che col re e col governo”. Altro che controlli, altro che garanzie internazionali! Lo stesso generale Le Boeuf annunciava il 18 ottobre a Napoleone III che ha protestato contro il plebiscito decretato dal re d’Italia: Napoleone gli dice di lasciar perdere. La Francia praticamente rinuncia al proprio ruolo di garante internazionale e consegna il Veneto ai Savoja. Una quasi unanimità che venne poi rispettata al momento del voto; già, ma anche i numeri non quadrano. Il 27 ottobre la Corte d’Appello proclama l’esito della consultazione: “SI 641.758”, “NO 69”. Nella lapide del Palazzo Ducale si parla di “Pel SI voti 641.758”, “Pel NO voti 69”, “Nulli 273”; Alvise Zorzi in “Venezia austriaca” parla di “SI 647.246”, “NO 69”, Denis Mack Smith “Storia d’Italia 1861-69” parla di “SI 641.000”, “NO 69”. E su questi numeri si impongono almeno due considerazioni: i voti favorevoli sono attorno al 99,99 %: una percentuale che non fu ottenuta neppure dai regimi più feroci, da Stalin a Hitler. Di sicuro il plebiscito venne “preceduto da una vera campagna di stampa intimidatoria dei fogli cittadini, preoccupatissimi per l’influenza che il clero manteneva nelle zone rurali dove, aveva scritto in settembre il “Giornale di Vicenza”, -i campagnoli furono lasciati nell’ignoranza o nell’apatia d’ogni civile concetto, educati all’indifferenza per ogni sorta di governo”. Si scriveva ad esempio “ricordino essi (i Parroci e i Cooperatori dei ns. villaggi) che ove in alcuna parrocchia questo voto non fosse sì aperto, sì pieno quale lo esige l’onore delle Venezie e dell’Italia, sarebbe assai difficile non farne mallevadrice la suddetta influenza clericale, e contenere l’offeso sentimento nazionale dal prendere contro i preti di quelle parrocchie qualche pubblica e dolorosa soddisfazione. Questa politica intimidatoria tuttavia non ebbe grossi effetti sulla partecipazione popolare: “A Valdagno, ad esempio nonostante il plebiscito venisse decantato non come semplice formalità e cerimonia, ma una festa, una gara, solo circa il 30% sulla complessiva popolazione del Comune si recò a votare, mentre un buon 70%, per chissà quale motivo, preferì continuare ad occuparsi dei fatti propri, indifferente all’avvenimento. Analogamente in tutti i distretti…..”. E’ la conferma del fatto che il cosiddetto risorgimento fu nel Veneto un momento al quale la stragrande maggioranza del nostro popolo partecipò con grande indifferenza, passiva. E questo ce lo conferma Mack Smith che scrive “Garibaldi si infuriò perchè i Veneti non si erano sollevati per conto proprio, neppure nelle campagne dove sarebbe stato facile farlo”. Sulla libertà del voto e sulla segretezza dello stesso ci illumina la lettura di “Malo 1866” di Silvio Eupani:“Le autorità comunali avevano preparato e distribuito dei biglietti col si e col no di colore diverso; inoltre, ogni elettore, presentandosi ai componenti del seggio, pronunciava il proprio nome e consegnava il biglietto al presidente che lo depositava nell’urna”. E Federico Bozzini così descrive nel suo “L’arciprete e il cavaliere” quanto avvenne a Cerea: “Come già si disse -continua il commissario- vi devono essere due urne separate, una sopra un tavolo, l’altra sopra l’altro. Se per caso non avesse urne apposite, potrà adoperare due misure di capacità pei grani, cioè una quarta od un quartarolo. Sopra una sarà scritto ben chiaro il SI, sopra l’altra il NO”. E più avanti: “I protocolli sono due, -uno pei votanti che presentano il viglietto del SI, l’altro dei votanti che presentano il viglietto del NO, per modo che il numero complessivo dei viglietti che, finita la votazione, si troveranno in ciascheduna urna, dovrà corrispondere all’ultimo numero progressivo del protocollo. Nel protocollo pei viglietti del NO si dirà: votarono negativamente i seguenti cittadini. La piena pubblicità del voto rende inutile lo spoglio finale.” E alla fine: “La commissione quindi conclude il presente Protocollo gridando: Viva l’Italia unita sotto lo scettro della Casa di Savoja”. Di particolare interesse, sempre sul volume del Bozzini, la citazione della Gazzetta di Verona del 17 ottobre 1866: “Si, vuol dire essere italiano ed adempire al voto dell’Italia. No, vuol dire restare veneto e contraddire al voto dell’Italia”. Una sottolineatura di straordinaria importanza: già allora qualcuno aveva capito che una cosa erano i veneti e un’altra gli italiani e che gli interessi degli uni raramente coincidevano con gli interessi degli altri. Cosa che del resto aveva ben capito Napoleone Bonaparte quando consigliava al figliastro di non ascoltare chi gli suggeriva di dare a Venezia un po’ più di autonomia, invitandolo, invece, a mandare “degli italiani a Venezia e dei Veneziani in Italia”.