20 ottobre 1388

Con la drammatica fine delle signoria scaligera, il 20 ottobre del 1388 iniziò per Verona il dominio Visconteo. Con l'elezione del podestà e nunzio del Comune Mantenario dei Cambiatori il Signore milanese ottiene perpetua signoria e giursdizione sulla città e il suo territorio negli affari civili, criminali e di altro genere; l'autorità di governare e conservare la città e il distretto; la facoltà di correggere o rifare gli Statuti e gli ordinamenti della città, di disporre in qualsiasi modo dei beni del Comune, di eleggere governatori, capitani, giudici ed altri ufficiali secondo la volontà propria: di costituire procuratori e componenti del Consiglio dell'Università dei cittadini e del Comune di Verona. Così il popolo conferiva a Giangaleazzo l'autorità piena, assoluta e illimitata nel governo della città e del distretto di Verona. Inviso dai veronesi, Giangaleazzo aveva fatto realizzare una cittadella fortificata a ridosso della città dove le proprie truppe potessero tenersi a distanza dalla popolazione ostile e chiudersi a difesa in caso di sommossa. La Cittadella quadrangolare si estendeva da Piazza Bra a Porta Nuova, sfruttando la vecchia cinta muraria comunale e la nuova realizzata dal Cangrande della Scala sessant'anni prima. I camminamenti di ronda erano stati girati all'esterno e quello che era stato strumento di difesa fino a un secolo prima, era ora mezzo di oppressione. Ancora oggi rimane memoria della cittadella non solo nella toponomastica Veronese ma anche nel suo sottosuolo come ha dimostrato il rinvenimento di un muro difensivo visconteo sul lato Adige della cittadella nel 2008 durante gli scavi per la costruzione di un parcheggio sotterraneo. L'aumento dei dazi, il ristabilimento di altri che erano stati tolti e l'imposizione di nuovi contributi contro ogni diritto e consuetudine oltre al ricordo e alla nostalgia dei tempi della Scala, indussero i veronesi a ribellarsi. L'esercito visconteo si rinchiuse nella cittadella nel giugno del 1390, quando un'insurrezione popolare cercò di rovesciare il governo milanese. Ricevuti rinforzi, i Visconti riuscirono a riorganizzarsi e a reprimere la rivolta nel sangue. Oltre alla cittadella, altri interventi di fortificazione ad opera dei Visconti furono la costruzione di Castel San Pietro, di Castel San Felice sulle colline a ridosso della città, e la realizzazione del famoso ponte-diga a Valeggio sul Mincio, opera che secondo il progetto avrebbe dovuto deviare il corso del Mincio e privare Mantova dei laghi che tanta parte avevano nella difesa della città. E' probabile che l'introduzione della coltivazione del riso nel veronese sia stata introdotta proprio nel breve periodo di dominazione viscontea, quando da Milano, i semi di riso furono forse portati nella cosiddetta Bassa, la zona pianeggiante e acquitrinosa a sud di Verona. Principale oppositore del potere visconteo in Veneto è a questo punto la casata dei Carraresi, signori di Padova. Gian Galeazzo aveva sconfitto Francesco da Carrara e si era impadronito di Padova estendendo il potere su tutta la Marca con preoccupazione di Venezia che, pur mantenendo in apparenza un atteggiamento neutrale, tramava per ristabilire un equilibrio di potere. Attorno a Francesco da Carrara si coalizzò una variegata alleanza che andava da Venezia a Firenze, riunendo gli ultimi eredi degli Scaligeri: i figli del defunto Antonio della Scala e dei defraudati figli di Bernabò e Regina della Scala. La guerra che scaturì da questa alleanza produsse un nulla di fatto, ma nel 1402, con la morte di Giangaleazzo, il dominio visconteo scricchiola e Francesco da Carrara, signore di Padova, col pretesto di voler rimettere a capo della signoria Guglielmo, figlio naturale di Cangrande II, riesce ad entrare a Verona. Guglielmo della Scala viene proclamato Signore di Verona ma ritrovato morto poco dopo, quasi sicuramente avvelenato dal Carrarese che getta la maschera sul suo piano. I figli di Guglielmo, Antonio e Brunoro, cercando di forzare i patti con Francesco da Carrara, tentano di puntare su Vicenza per riannetterla a Verona. Francesco da Carrara coglie il preteso al volo, li fa arrestare e viene proclamato lui nuovo signore della città. Il 25 maggi del 1404 Francesco da Carrara riceve le onorificenze delle Arti e accetta la Signoria della città che gli viene offerta in una solenne cerimonia in piazza Grande (oggi piazza Erbe). La Cittadella Viscontea viene resa inservibile. I malcontenti e i tumulti tuttavia non si placarono e molte città del Veneto preferiscono Venezia alla dominazione padovana: Vicenza, Bassano, Feltre, Belluno. Anche a Verona una parte del popolo appoggia i veneziani che, diretti sulla città, sono accolti con favore in Valpolicella dove si accampano. Il 24 giugno del 1405, dopo un breve assedio, appoggiati dai Gonzaga, i veneziani entrarono in città da Porta Vescovo. Francesco da Carrara, catturato di lì a breve e trasportato a Venezia, venne condannato a morte con la lapidaria sentenza "omo morto no' fa guerra". Venezia era ormai uno dei più potenti stati italiani. Dall'iniziale potere marittimo con cui controllava i traffici sul Mediterraneo, stava progressivamente espandendo il suo potere anche sulla terraferma, nell'entroterra veneto in particolare. Verona, con la perdita della signoria e del suo peso politico, non aveva più la possibilità di mantenere l'indipendenza in mezzo a stati che diventavano sempre più estesti e potenti. Tra tutti i possibili dominanti, Venezia parve quindi essere la soluzione migilore e più vantaggiosa. Fu così che lo stesso 24 giugno 1405, un gruppo di quaranta rappresentanti del popolo veronese, vestiti di bianco, si recarono a Venezia per presentare al Doge Michele Steno le insegne, il sigillo, le chiavi della città e prestare giuramento di fedeltà alla Serenissima. Ricevettero in cambio il gonfalone di Venezia con il leone alato di San Marco che da quel momento avrebbe sventolato su Verona. Da questo momento la città sarebbe stata retta da due rettori veneti: un podestà con potere politico e un capitano con potere militare. Verona perdeva definitivamente la sua indipendenza, ma guadagnava un periodo di pace, stabilità sociale e relativa prosperità economica che, a parte poche guerre, sarebbe durato per quasi quattro secoli.


20 ottobre 1587

Bianca Cappello fu una nobildonna veneziana figlia del patrizio Bartolomeo Cappello, che ricoprì prestigiosi incarichi per la Serenissima, e di Pellegrina Morosini, proveniente da un’illustre famiglia che aveva dato i natali a dogi, cardinali e a una regina consorte d’Ungheria, Tomasina (1250-1300). Orfana di madre a dieci anni, Bianca instaurò un rapporto molto difficile con la matrigna, Lucrezia Grimani, al punto che molti anni dopo, in una lettera del 28 marzo 1573 indirizzata al cugino Andrea, attribuì a Grimani le responsabilità della sua fuga giovanile, sostenendo che la donna fosse stata “causa di ogni mio male e rovina”. A soli quindici anni, infatti, Bianca aveva conosciuto il fiorentino Pietro Bonaventuri, impiegato presso il Banco dei Salviati ubicato di fronte alla dimora dei Cappello e, scopertasi incinta, lo aveva seguito in una rocambolesca fuga verso Firenze, ove giunse nel dicembre del 1563. Forse allettato dalla dote della fanciulla, sottovalutando le conseguenze del suo gesto, Bonaventuri si attirò la condanna da parte della Serenissima e fu inseguito per tutta la vita dalla taglia di duemila ducati (più altri mille stanziati dal padre di Bianca) per chi lo avesse assassinato e riportato la sposa nella città di origine. L’intera città della laguna fu scossa dallo scandalo per il prestigio del casato coinvolto e l’evento minacciò di pregiudicare i già delicati rapporti diplomatici tra Venezia e Firenze. Il granduca di Toscana Cosimo I, tuttavia, offrì protezione alla coppia, nel frattempo sposatasi e allargatasi grazie alla nascita di una figlia di nome Virginia (o Pellegrina). La vita di Cappello a Firenze fu molto diversa da quella lussuosa abbandonata precipitosamente a Venezia; la famiglia del marito, nobile ma decaduta, viveva infatti in condizioni dignitose ma modeste e la giovane si vide catapultata in una realtà nuova e a tratti ostile. Bianca era dotata di un temperamento romantico e appassionato, ma soprattutto di una eccezionale bellezza. Tiziano ne esaltò, in un ritratto della maturità, l’ovale perfetto incorniciato dai bei capelli ramati dalle sfumature calde e luminose. Non era colta, ma sapeva intrattenere amabilmente gli ospiti con la sua conversazione arguta e garbata. Nel 1574, intanto, era subentrato al trono granducale l’introverso e schivo Francesco I, appassionato di chimica e di scienze naturali e occulte. Il suo matrimonio con la poco attraente Giovanna d’Asburgo, sorella dell’imperatore Massimiliano I, non era felice: la moglie disprezzava la dinastia dei Medici, che non giudicava all’altezza del suo rango, ed era invisa ai sudditi. Non è noto esattamente in che circostanza Francesco I abbia incontrato Bianca, ma le fonti sostengono che i due fossero già amanti nel 1567, con il marito compiacente in cambio di un buon incarico presso la corte medicea e del miglioramento del suo tenore di vita. Nel 1572 Pietro Bonaventuri scomparve dalla scena, assassinato in circostanze non del tutte chiare che alimentarono a lungo il sospetto che il mandante dell’omicidio fosse il granduca. L’11 aprile del 1578 fu la volta della granduchessa Giovanna d’Asburgo, che perse la vita, a soli trentuno anni, per le conseguenze di una caduta. Francesco sposò un anno dopo Bianca Cappello, sua storica amante. Le nozze, celebrate segretamente per via della ferma opposizione di tutta la famiglia medicea – eccezion fatta per Isabella, sorella di Francesco e amica di Bianca – furono rese pubbliche solo a distanza di un anno. I pochi anni di regno della coppia, che si dimostrò sempre innamoratissima, trascorsero sereni, con il granduca dedito ai suoi esperimenti scientifici e Bianca che prediligeva una vita al riparo dagli intrighi politici, nell’isolamento delle ville medicee nella campagna fiorentina. La scelta di mantenere un basso profilo, dettata forse anche dal desiderio di non vedere aumentata la propria impopolarità, non bastò tuttavia a proteggere la Cappello dalle tante maldicenze circolate ai suoi danni. Venivano imputati a lei gli errori politici del granduca e fu sospettata persino di aver avvelenato l’unico figlio maschio di Francesco I e di Giovanna d’Asburgo, Filippo, nel 1582. Correva voce che fosse dedita alle arti magiche e non le si perdonava l’essere la “straniera” amata fedelmente da Francesco. Solo una strega, si mormorava, poteva aver mantenuto inalterata la devozione del granduca così a lungo. Il maggiore detrattore di Bianca era il fratello di Francesco, il cardinale Ferdinando de’ Medici. Il prelato muoveva al granduca, con cui intratteneva pessimi rapporti, continue rimostranze per l’affetto verso colei che definiva “la pessima Bianca”. Cappello rispondeva all’astio del cognato con la tolleranza sperando, forse, col tempo in una riconciliazione. Ma fu proprio durante uno dei soggiorni di Ferdinando de’ Medici nella villa di Poggio a Caiano, nell’ottobre del 1587, che la coppia granducale trovò misteriosamente la morte a un giorno di distanza l’uno dall’altra. A seguito di un banchetto, Bianca e Francesco accusarono infatti vomito, crampi e febbre alta. L’agonia si protrasse per alcuni giorni e i due morirono tra atroci tormenti. Le ultime parole di Bianca al suo confessore, fra Maranta, prima di spirare, furono per lo sposo: “Dite per me addio al mio signore Francesco de’ Medici, e ditegli che gli sono sempre stata fedele e amorosa […] ditegli che lo prego di perdonarmi, se in qualche modo lo avessi offeso”. Data la morte improvvisa dei granduchi, Ferdinando fu immediatamente sospettato di aver avvelenato i congiunti, né fugò i dubbi la frettolosa autopsia con diagnosi di malaria, ordinata sui due cadaveri dal cardinale. Francesco e Bianca furono riportati insieme a Firenze, ma mentre il primo fu sepolto nella chiesa di San Lorenzo con tutti gli onori, alla seconda furono negate le esequie di stato e il suo corpo riposa in un luogo sconosciuto e non nell’austera cripta delle Cappelle medicee, ultima dimora delle altre granduchesse di Toscana. Il nuovo granduca attuò una sistematica damnatio memoriae nei confronti della veneziana: la maggior parte dei suoi ritratti venne bruciata e i suoi busti distrutti come le monete coniate in suo onore, mentre lo stemma dei Cappello fu ovunque sostituito con quello di Giovanna d’Asburgo. L’odio implacabile del nuovo granduca si estese anche all’unico figlio di Francesco I e della nobildonna veneta di nome Antonio, la cui nascita, nel 1576, fu gravata dal falso sospetto che fosse stata invece l’illecito frutto di una relazione tra il granduca e una fantesca. Antonio fu osteggiato dai familiari ed escluso dalla successione al Granducato di Toscana.