9 ottobre 1963

Una scena da diluvio universale. Gli animali, nelle stalle e nei cortili, passarono dal silenzio assoluto all’agitazione. Stormi di uccelli si alzarono in volo per andare lontano, fino a scomparire oltre l’orizzonte. Era una notte di inizio autunno quando un gigantesco mostro d’acqua scatenò l’inferno in terra. Esattamente alle 22.39 del 9 ottobre 1963, un’enorme frana di roccia si stacca dalle pendici del Monte Toc, dietro la diga del Vajont, tra il Friuli e il Veneto. L’enorme massa, un corpo unico di circa due chilometri quadrati di superficie, e di ben 260 milioni di metri cubi di volume, piomba in un baleno nel sottostante lago artificiale. Lo schianto solleva un’onda di230 metrid’altezza: si alzano 50 milioni di metri cubi di materiale solido e liquido. La metà della massa d’acqua scavalca la diga, abbattendosi nella sottostante valle del Piave, provocando la distruzione di sette paesi: Longarone, Pirago, Maè, Rivalta, Villanova, Faè, Codissago, Castellavazzo. L’altra parte dell’onda sale la valle e va a colpire i paesini friulani di Erto e Casso e una miriade di borghi. Verso Longarone, allo sbocco del Vajont, l’onda è alta70 metrie produce un vento sempre più intenso, che porta con sé, in leggera sospensione, una nuvola nebulizzata di goccioline. Tra un crescendo di rumori, le persone si rendono conto di ciò che sta per accadere ma oramai è troppo tardi, non possono più scappare. È un disastro immane: i morti accertati sono 1.910 (di cui 1.450 solo a Longarone), 460 dei quali bambini sotto i 15 anni. A cui si aggiungono i 10 caduti sul lavoro durante gli anni di costruzione della diga. E poi feriti, case spazzate via, collegamenti interrotti. La geografia dei luoghi, già sconvolta dalla realizzazione della diga, da quel terribile giorno cambia per sempre. L’ondata rade al suolo le case ma è talmente forte da scheggiare anche le altre montagne. Sul Monte Toc resta una cicatrice dalla forma di una ‘M’ gigantesca. Alberico Biadene, direttore costruzioni della Sade, si era accorto che stava per accadere qualcosa. A neppure 24 ore dal disastro, chiese ai vertici della società costruttrice, la Sade, di far scattare l’allarme e provvedere con un piano di evacuazione delle cittadine di Erto e Casso. Il 9 ottobre, prima dell’onda assassina, la frana – nella zona dove resterà la ‘M’ - ‘sussurra’ che sta per muoversi e gli alberi si inclinano. È mezzogiorno quando alcuni operai, in pausa pranzo, vedono ad occhio nudo il movimento della montagna. Uno di loro, tra le 15 e le 16, scorge alcuni alberi cadere e delle zolle rotolare a valle. Alle 22 il geometra Giancarlo Rittmeyer telefona a Biadene, a Venezia, per comunicare la sua preoccupazione, dato che la montagna ha cominciato a cedere visibilmente. Esattamente 39 minuti dopo quella telefonata, è il disastro: lo stesso geometra sarà tra le vittime. Solo alle prime luci dell’alba gli occhi dei sopravvissuti possono vedere ciò che è accaduto. Il greto del Piave è stato raschiato dall’onda che ha cancellato del tutto Longarone. Case, chiese, alberghi, osterie, monumenti, piazze e strade sono sommerse dall’acqua che ha sradicato persino le fondamenta degli edifici. Della stazione ferroviaria non rimangono che lunghi tratti di binari piegati come fuscelli. Svetta solo il campanile di Pirago, graziato dall’onda assassina. Subito scatta la commissione d’inchiesta ministeriale. L’allora Presidente della Repubblica, Antonio Segni accorre nella valle del Piave, e guardando dell’elicottero il disastro sotto i propri occhi, non trattiene le lacrime. La frana del monte Toc ha avuto la colpevole complicità degli uomini, ma accertarlo, tra il dolore e la rabbia dei superstiti, non è stato semplice: l’iter processuale sarà eterno, e anche la battaglia per i danni materiali e morali avrà un percorso travagliato. Le quasi 2mila vite spezzate in quella drammatica sera, trascinate, ingoiate e sepolte da quella spaventosa onda di acqua, fango e morte, resteranno per sempre una ferita viva nel cuore dell’Italia.


9 ottobre 1511

I Zattieri della Piave, compirono un atto di eroismo nella difesa di Treviso. Dopo la sconfitta dell’Armata Veneta ad Agnadello il 14 Maggio 1509 contro la Lega di Cambrai che puntava all’annientamento dell’invidiata Repubblica Veneta e la scomunica di Giulio II, si assistette al dilagare della coalizione composta dai monarchi Europei nel territorio Marciano (Massimiliano d’Asburgo per l’Austria, Luigi XII per la Francia, Ferdinando il Cattolico per la Spagna, ed il Papa Giulio II). I Trevigiani si prepararono alla battaglia nonostante che il governo Veneto avesse dato l’autorizzazione alle varie città del Stato de Terra di arrendersi al nemico. Il popolo di Treviso da sempre fedele al governo Veneto bloccò il podestà Gerolamo Marino che stava per abbandonare la città per recarsi a Venezia. Il Senato Veneziano decise così di fortificare Treviso per affrontare l’urto finale della Lega nominando Fra Giocondo da Verona progettista delle difese della città. Successivamente il progetto passò in mano al Bartolomeo D’Aviano, già comandante dell’Esercito Veneto. L’esercito della Lega incombeva nelle pianure trevigiane, dopo aver abbandonato la conquista della città di Padova, Francesi e Austriaci si riunivano in un unico comando affidato a Chambanèes de la Palisse. Tra il 7 e 15 Ottobre 1511 si ebbe l’attacco decisivo contro la città che si concluse con un nulla di fatto.Treviso fu salva grazie a vari atti di eroismo del popolo Veneto non ultimo quello che vide protagonisti i Zattieri della Piave, i quali costretti loro malgrado a trasportare le truppe e armamenti agli Austriaci che approntavano l’assedio di Treviso, si auto affondarono in una curva del fiume nel Versante del Montello assieme al nemico. L’atto di eroismo fu premiato dalla Serenissima con il dono di una medaglia d’oro “con l’impronta di San Marco” ai famigliari e orfani dei defunti e il riconoscimento di alcune terre. L’orgoglio Veneto nel Trevigiano fece da scudo alla capitale Venezia e per questo il Maggior Consiglio nello stesso secolo donò ai Trevigiani un Leone di San Marco ubicato nella zona del portello con su scritto: SAN MARCO CONSERVA LA CITTA’ A TE DEDICATA.


9 ottobre 1653

Muore a Venezia il 9 ottobre 1653 Lucrezia Marinelli, nasce a Venezia nel 1571. Figlia di Giovanni Marinelli, medico e filosofo. Risulta essersi sposata verso i quarant'anni con certo Gerolamo Vacca. Pare abbia avuto due figli: Antonio e Paulina. Muore all'età di 82 anni, a Venezia il 9 ottobre 1653. Il padre, all'epoca era un intellettuale molto conosciuto per varie opere sulla "querelle de femme", in quegli anni molto in voga. Lucrezia cresce così in un ambiente colto, stimolata allo studio di Aristotele e dei più grandi poeti e scrittori. La sua produzione letteraria sarà abbondante, dominata da temi spirituali: vite e storie di santi, compresa una vita della Madonna. La sua lirica si stenderà a temi mitologici nella quale si potrà intuire l'influenza del Tasso. La "querelle des femmes" ritornata di moda nel seicento vede per la prima volta la partecipazione intellettualmente attiva delle donne ovviamente della classe più ricca, e Lucrezia, esprimerà la sua maturità intellettuale proprio alla misoginia imperante con un'opera, per la quale è ancora oggi ricordata, la Della Nobilta' et eccellenza delle donne, edita per la prima volta nel 1600. L'interesse per tale opera sta, oltre che per la catalogazione delle donne illustri (e sono tante) proprio nella proposta di una nuova interpretazione della storia allora conosciuta. Oggi molte studiose l'hanno recuperata, studiata, rivisitata.