5 ottobre 1507,

«Circa le 23 ore, ritornando Paolo Sarpi al suo convento di San Marco a Santa Fosca, nel calare la parte del ponte verso le fondamenta, fu assaltato da cinque assassini, parte facendo scorta e parte l’essecuzione, e restò l’innocente padre ferito di tre stilettate, due nel collo et una nella faccia, ch’entrava all’orecchia destra et usciva per apunto a quella vallicella ch’è tra il naso e la destra guancia, non avendo potuto l’assassino cavar fuori lo stillo per aver passato l’osso, il quale restò piantato e molto storto» Frate Paolo Sarpi non era mai stato un uomo tranquillo, soprattutto non sapeva stare zitto quando le cose non andavano nel modo corretto. Il 10 gennaio 1604 il Senato Veneziano emanò una fiera ordinanza con la quale proibiva nella maniera più assoluta la fondazione di ospedali gestiti da ecclesiastici, monasteri, chiese e altri luoghi di culto senza previa autorizzazione. E un’altra legge del 26 marzo 1605 proibiva ai laici l’alienazione dei beni a ecclesiastici e limitava la giurisdizione del tribunale romano nei confronti del territorio veneziano. Fatalità volle che proprio dopo l’emanazione della suddetta legge, con una tensione palpabile fra Repubblica Serenissima e Stato pontificio, fossero arrestati due ecclesiastici, tale Scipione Saraceno colpevole di molestie sessuali a una parente e Marcantonio Brandolini, abate di Nervesa, reo di stupri e omicidi. Papa Paolo V colse la palla al balzo e richiese l’abrogazione delle due leggi e l’immediata consegna dei due ecclesiastici allo Stato Pontificio, per essere processati secondo diritto canonico. Venezia si rifiutò e il nuovo doge Leonardo Donà istituì una vera “task force” di teologi e giuristi per esaminare e controbattere efficacemente alle ingiunzioni della Santa Sede. Paolo Sarpi, per la sua sapienza e competenza, fu nominato a capo di questa squadra, e il suo scritto «Consiglio in difesa di due ordinazioni della Serenissima Repubblica» fu inviato a Paolo V. Sarpi prese duramente posizione contro le richieste papali, facendo seguire altri scritti, tutti sulla stessa linea: «Scrittura sopra la forza e validità delle scomuniche», il «Consiglio sul giudicar le colpe di persone ecclesiastiche», la «Scrittura intorno all’appellazione al concilio», la «Scrittura sull’alienazione dei beni laici agli ecclesiastici» e altri ancora, poi raccolti nella sua successiva «Istoria dell’interdetto». In quell’opera è contenuta anche la traduzione in italiano, fatta dal Sarpi stesso, del trattato di Jean Gerson sulla validità della scomunica, che fu attaccato dal cardinale Roberto Bellarmino, al quale fra’ Paolo rispose con «Apologia per le opposizioni del cardinale Bellarmino». Fulgenzio Micanzio, suo futuro biografo, iniziò a collaborare con Paolo Sarpi, il 6 maggio, dopo che il 17 aprile Paolo V aveva scomunicato il Consiglio veneziano e fulminato con l’interdetto lo Stato veneto. E allora Venezia pubblicò il «Protesto del monitorio del pontefice» (scritto ancora da Sarpi, nel quale il testo papale «Superioribus mensibus» è definito «nullo e di nessun valore») mentre impedì la pubblicazione della bolla pontificia. Ai preti venne ordinato di non celebrare messe e Venezia reagì con la loro subitanea espulsione con grande appoggio da parte del popolo, il quale, come riferito proprio da Paolo Sarpi, li salutò con un corale «Andè in malora», detto proprio in veneziano. La Spagna, alleata dello Stato Pontificio, cercò di portare aiuto al potente protetto, facendo in modo di scatenare un incidente internazionale. Fingendosi veneziani, soldati spagnoli travestiti invasero e saccheggiarono Durazzo, ma la cosa fu subito scoperta e il governo turco offrì appoggio ai veneziani per la rappresaglia. Nel frattempo, Roma intimò a Paolo Sarpi e al suo assistente Micanzio, entrambi scomunicati, di rientrare alla Santa Sede per essere giudicati: ovviamente rifiutarono. Anche se il papa aveva intenzione di portare guerra alla Repubblica di Venezia facendosi forza della Spagna, dovette venire a miti consigli poiché la Serenissima godeva della protezione della Turchia ma anche della Francia e dell’Inghilterra. Le trattative andarono avanti: i due ecclesiastici furono scarcerati ma le leggi antipapali rimasero in vigore e i preti non poterono fare ritorno in territorio veneziano, anche se l’interdetto pontificio era stato tolto. Nel frattempo a Paolo Sarpi giunsero velate minacce di morte da parte della curia romana, portate a sua conoscenza dall’ex luterano Kaspar Schoppe: «il papa, come gran prencipe, ha longhe le mani, e che per tenersi da lui gravemente offeso non poteva succedergli se non male, e che se sino a quell’ora avesse voluto farlo ammazzare, non gli mancavano mezzi. Ma che il pensiero del papa era averlo vivo nelle mani e farlo levare sin a Venezia e condurlo a Roma, offerendosi egli, quando volesse, di trattare la sua riconciliazione, e con qual onore avesse saputo desiderare; asserendo d’aver in carico anco molte trattazioni co’ prencipi alemanni protestanti e la loro conversione» riferisce l’assistente Micanzio, che non fa mistero di temere per la vita di Sarpi. Non si sbagliava e Paolo Sarpi fu pugnalato a tradimento. I suoi attentatori fuggirono molto facilmente nella casa del nunzio pontificio, per poi essere imbarcati per Ravenna e da lì direttamente a Roma. I loro nomi furono subito noti: l’esecutore materiale dell’attentato fu Rodolfo Poma, già mercante veneziano, poi trasferitosi a Napoli e di qui a Roma, dove divenne intimo del cardinale segretario di Stato Scipione Borghese e dello stesso Paolo V. Fu coadiuvato da tre uomini d’arme – tali Alessandro Parrasio, Giovanni da Firenze e Pasquale da Bitonto – mentre «la spia, o guida, fu un prete, Michiel Viti bergamasco, solito offiziare in Santa Trinità di Venezia. Portato prontamente dal chirurgo Girolamo Fabrici d’Acquapendente,Sarpi riuscì a sopravvivere grazie al pronto intervento di quest’ultimo e al fatto che la lama non aveva leso organi vitali, patendo però la rottura della mascella e numerose cicatrici al volto. Paolo Sarpi disse «il mondo vuole che sia data stilo romanae curiae», traducibile sia come “stile della Curia Romana” sia come “pugnale della Curia Romana”. Dopo l’attentato, Venezia corse ai ripari donando a Paolo Sarpi una casa sicura a S. Marco, dove potesse vivere con Micanzio e altri, aggiungendo una sovvenzione e a una barca con la quale spostarsi.