7 ottobre 1513

Una delle sconfitte più gravi subite dal D’ Alviano. Il condottiero umbro non aveva vie di mezzo: spesso conseguiva travolgenti vittorie con conseguenze trionfali come al Rusecco (dopo la disfatta imperiale arrivò d’impeto a conquistare mezzo Friuli e mezza Istria) o a Marignano, dove tamponò l’ennesima disfatta dei lanzichenecchi contro gli svizzeri decretando di fatto la fine delle velleità elvetiche su Milano. Altresì subiva sconfitte clamorose, come ad Agnadello o appunto alla Motta. La Motta di Costabissara è a nord di Vicenza, e durante una delle fasi della guerra vi si ritrovano un contro l’altro il D’Alviano e il Cardona Viceré di Napoli comandante degli spagnoli. Non è la prima occasione in cui si scontrano, stavolta ad avere la meglio sarà lo spagnolo. L’esercito iberico è costituito da circa 1.000 cavalieri e 4.000 unità di fanteria ben armate con armi da fuoco. In aggiunta all’esercito vi sono 3.500 lanzichenecchi tedeschi. L’esercito veneziano conta 3.000 cavalieri circa, 10.000 unità di fanteria e 24 cannoni divisi in 5 colonne. Alle forze numeriche di Alviano, si uniscono anche molti contadini del territorio, esasperati dai saccheggi dei tedeschi, abituati più a strategici sacchi che a battagliare, come si vedrà qualche anno dopo a Roma, espugnata dai tercios spagnoli e devastata dai lanzichenecchi. Il comandante veneziano divide le truppe in 5 colonne: una a Creazzo, una appena a nord di Vicenza, una in centro a Vicenza, una tra i monti di Creazzo e i due colli d’Abirone per posizionare pezzi d’artiglieria, e una colonna mobile. Giovanni Paolo Manfrone con 4.000 uomini stanzia a Montecchio Maggiore. Cardona si sente in trappola, cerca di sfondare verso Abirone ma viene bloccato dalle bocche da fuoco. Prova allora verso Bassano, con l’idea di costringere d’ Alviano ad abbandonare le posizioni per combatterlo sulla pianura o in caso estremo, di ripiegare verso Verona. L’effetto è che l’esercito spagnolo la mattina del 7 ottobre si sposta verso Schio senza che d’ Alviano se ne accorga, complice la solita nebbia. Appena il condottiero umbro si rende conto della manovra elusiva cerca di intercettarlo, ma viene attaccato dai tedeschi comandati da Prospero Colonna (e ricordiamo che Bartolomeo d’ Alviano era di casata Orsini, acerrimi nemici dei Colonna). I fanti veneziani usano la picca alla maniera degli svizzeri, con quella segretissima tecnica appresa qualche anno prima quando D’Alviano riuscì a peso d’oro a farla insegnare ai fanti da un comandante corrotto. In una prima fase si rivela vincente, i fanti e gli esasperati contadini hanno la meglio sui quadrati della fanteria imperiale. E’ la cavalleria tedesca che risolve lo scontro, la tecnica è vincente ma la gran parte dei volontari non ha l’esperienza e la freddezza necessarie per restare in posizione. La carica imperiale ne sconnette i ranghi, è per la maggior parte gente non avvezza agli scontri. D’Alviano cerca di tamponare, ricompatta le fila e si prepara allo scontro. Cardona e Colonna attaccano in forze, i lanzichenecchi cedono ancora una volta e l’esito è incerto. Chi risolve è il Marchese di Pescara con i rinforzi degli spagnoli (i famosi tercios, che saranno gli stessi che scardineranno le difese a Roma nel 1527). Alviano ripiega verso Padova, la fanteria veneziana cede e la cavalleria è in rotta. Vicenza chiude le porte ai fuggitivi per paura degli spagnoli, ed è strage. La battaglia non avrà influenza sulla guerra. È però ben vivida, dopo il revisionismo dell’epoca guglielmina e successiva, nelle storie militari tedesche, ed è vista oltralpe come una strepitosa vittoria della fanteria.


7 ottobre 1515

Muore Bartolomeo d'Alviano, nel pomeriggio del 13 settembre ha inizio la grande battaglia che dura fino a mezzanotte ; “Allorché, verso le nove antimeriane del 14 settembre, l’avangiardia della cavalleria veneziana “50 cavalla agli ordini dell’Alviano” giunge sul terreno, si combatte da circa tre ore, e la situazione è sempre grave. L’Alviano, coi pochi cavalieri di cui dispone, crede necessario entrare immediatamente in azione. Il suo primo attacco è respinto, ma sopraggiunge il grosso della cavalleria “700 lance” e il combattimento è ristabilito;la destra degli Svizzeri è avviluppata e schiacciata. Una strepitosa vittoria arride a Bartolomeo d’Alviano, che sarà considerato il miglior generale del momento ed il trionfatore di questa che fu definita una “battaglia non di uomini, ma di giganti”. Però i grandi sacrifici di questa battaglia fiaccano l’eroe. “Egli ha patito gran stanchi in questi zorni che ormai alla sua età non si richiedono scrive al Senato veneto il provveditore al campo, appena Bartolomeo si aggrava e si mette a letto; ha cavalcato per piova e nel passar l’Adda e l’Oglio a guado è stato longamente in acqua per ordinar li soi”. Si trattò di un’ostruzione intestinale a cui non c’era rimedio;. Tre medici lo sottoposero a una gravissima operazione. Ma il 7 ottobre 1515,”a ore 20″, confessato e comunicato (come annota il cronista veneto) morì senza fare testamento, mentre si disponeva a riconquistare Brescia alla repubblica di San Marco. Al condottiero umbro furono riservati gloriosi funerali. La cassa fu “ben impegolata” e coperta di nero; accompagnavano la salma tutti i suoi ufficiali in lutto; restò per molto tempo vegliato al campo di Gheri (Ghiara d’Adda)dove era morto, poi portata a Brescia. Quando i suoi ufficiali e soldati, con questo fardello, attraversarono le schiere nemiche,furono fermati perché privi di “lasciapassare”. Ma essi risposero fieri: “Bartolomeo d’Alviano non ha mai chiesto a nessuno il lasciapassare” ed ottennero l’onore delle armi dagli stessi nemici”. Dopo un mese,la cassa fu portata a Venezia per le solenni esequie in San Marco(1O novembre), per le quali “la Signoria spese 230 ducati”. V’intervennero il Patriarca e tutti gli Ordini religiosi, le “scuole dei battuti”, magistrati,gli ufficiali, due oratori francesi, pochi nobiluomini. Le botteghe furono chiuse; il corteo passò da San Marco a Santo Stefano, dove tenne il discorso funebre Andrea Novagero poi fu tumulato in un sarcofago marmoreo sopra la porta per desiderio della vedova Pantasilea Baglioni Alviano. II clero di Padova,”con soniti di campane et tali segni funebri”, per tutto un giorno celebrò messe e pregò per l’anima del defunto signore. Il doge disse a Pantasilea: “Madona, portè con pacienza el vostro dolor: el nostro Signor Dio etiam vede crocifiger Cristo”. II più grande elogio è quello che il suo generale Gian Giacomo Trivulzio gli fece in faccia a Marcantonio Colonna,che presidiava per la Spagna Verona, al momento in cui trasferivano la salma, senza salvacondotto: “Non è conveniente che chi da vivo non ha mai avuto paura dei nemici, da morto faccia segno di temerli”. Il Novagero, nell’elogio funebre, parla della mente acuta, incline al ragionar di scienza, arte, dispute letterarie, con gli umanisti del tempo. Alcuni passi dell’orazione funebre pronunciata nella basilica di San Marco il 1° novembre 1515 Andrea Novagero:”Io piango -disse- in nome mio,suo, della nostra Repubblica, e di tutti i buoni di tutto il mondo . Io lo ammiravo come un campione antico…Nell’antichità ho trovato molti campioni eccellenti, molti degni d’ogni elogio; ma ho trovato che soltanto Giulio Cesare è da ammirare. E mi era sembrato che le tante cose meravigliose narrate di lui fossero state inventate, perché credevo che non potessero tutte coesistere in un solo uomo. Ma questa incredulità me l’ha tolta Bartolomeo d’Alviano. Egli lo imitò in tutto, e nessuno gli si è avvicinato di più. Più di ogni altro, ne ebbe tutte le virtù del comando: la intuizione di ciò che si deve fare, la celerità dell’azione”. Dopodiché l’oratore fa la perorazione al senato veneto: “A lui che è morto per voi, rendete quello che dovete; non potete ridargli la vita, ma almeno gratificatelo con il massimo degli stipendi. Non fate che il nemico si rallegri per la sua scomparsa e noi invece ne scapitiamo; a questo ci spinga il dolorerà questo ci obblighi. Non veneriamolo con le” lacrime, ma con onoranze divine!”. Da Bartolomea Orsini non ebbe figli. Mentre dalla seconda moglie, Pantasilea Baglioni, “ebbe quattro figli Lucrezia, Isabella, Porzia e Livio Settimio, nato il 25 agosto 1514 mentre il padre era in campo presso Padova. Livio sposò Marzia Orsini figlia del Conte di Pitigliano, e non aven done avuto prolo mascolina, con lui si estinse la linea maschile degli Alviano”. Livio d’Alviano muore nel novembre 1537, a 23 anni, a Cherasco, combattendo contro gli ispano-tedeschi del Marchese di Vasto. Riposa, insieme alla sorella Isabella Alviano Cesi, che così volle, e a suo zio Bernardino d’Alviano nella collegiata di Acquasparta. La lapide che chiude la tomba comune dice: “0ssa di Bernardino d’Alviano (Liviani)vescovo di Nocera e di Livio d’Alviano,che ardente di amore guerresco,aveva dato uno splendido esempio di coraggio nel fiore della gioventù. Isabella d’Alviano Cesi, nipote e sorella, procurò di trasferirle a di riporle qui,con devozione, nel 1582”.nardini Liviani Episcopi neceriensis et Livii Liviani qui martis studio flagrans egregium virtutis speciem in flore L’epigrafe in latino.: “Bernardini Liviani Episcopi neceriensis et Livii Liviani qui martis studio flagrans egregium virtutis speciem in flore juventutis dederat ossa ex Alviano translata Isabella e Livianae Coesiae neptis et soris pietate hic posita teguntur. MDLXXXII“.


7 ottobre 1571

La Repubblica di Venezia, insieme alla Lega Santa, vinceva una memorabile battaglia contro gli ottomani nel golfo di Lepanto, all’imboccatura dell’istmo di Corinto. Già l’8 novembre 1571 il Consiglio dei Dieci decideva di far rappresentare la vittoria nella sala dello Scrutinio. L’incarico era affidato a Jacopo Tintoretto, che consegnò l’opera finita nel 1573. Questo ammiratissimo quadro andrò distrutto solo quattro anni dopo, nell’incendio del Palazzo Ducale del 20 dicembre 1577. In sostituzione del dipinto perduto, fu incaricato di una nuova tela il pittore Andrea Michieli, detto il Vicentino dalla sua città natale, benché la sua intera carriera si fosse svolta a Venezia. Vicentino fu uno degli artisti più produttivi della generazione formatasi nell’orbita di Tintoretto, di Veronese e dei Bassano. Venne coinvolto nel grande cantiere di rifacimento della decorazione pittorica delle sale del Maggior Consiglio e dello Scrutinio devastate dal fuoco e poté così beneficiare di commissioni importantissime che lo qualificano come uno dei protagonisti della scena artistica manierista veneziana. In questa ampia tela, Vicentino esprime la sua abilità nella composizione di articolate scene belliche, arrivando a organizzare con una regia complessa la narrazione di un episodio chiave della memoria storica di Venezia. A Lepanto la coalizione navale cristiana contava 244 navi da guerra, mentre da parte turca erano schierate 300 unità, in totale circa 170.000 uomini, con numeri comparabili a quelli della battaglia di Waterloo. Si trattava della più grande concentrazione di unità navali mai vista in quel braccio di mare, come è ben reso dal pittore con profusione di dettagli. Nel dinamismo vorticoso della scena, si distinguono i singoli protagonisti di quella memorabile battaglia. Da parte cristiana, Sebastiano Venier in primo piano sulla destra, con la barba bianca e lo sguardo fiero, settantenne a capo della flotta veneziana e futuro doge. Dietro di lui il comandante dell’armata spagnola Don Giovanni d’Austria, di soli 22 anni, con lo scettro del comando e l’elmo piumato spagnolo. Più in fondo, sempre nella porzione destra della tela, Marcantonio Colonna, comandante delle truppe pontificie, sventola lo stendardo della vittoria, il Cristo su fondo oro. Da parte ottomana, emerge al centro del lato sinistro la figura di Alì Pascià, l’ammiraglio turco. Il dipinto celebra sia la vittoria dell’alleanza degli stati cristiani sia il ruolo predominante dei veneziani nella battaglia.


7 ottobre 1593

Palmanova è unica nel suo genere perché la sua pianta è geometricamente perfetta, a tal punto da sembrare quasi “non umana” nella sua visione dall’alto. È a forma di stella a nove punte. É circondata da mura e fossati che per circa sette chilometri formano questa cornice così armoniosa. Sei strade convergono verso il centro, una piazza esagonale, talmente perfetta che al suo interno è facile restare confusi, trovandosi di fronte ad un panorama pressoché identico a 360°. Quando scattò l’idea di costruire una città unica nel suo genere, prima ancora che fosse edificata, si pensò di affidarne il progetto al genio in assoluto, Leonardo Da Vinci, che però rifiutò l'incarico perché impegnato a Milano. Documenti storici affermano che comunque fece una visita al luogo, e chissà, magari anche solo un suo consiglio ha dato origine all'intero complesso. Non sappiamo se effettivamente abbia disegnato anche solo una bozza, magari celata e poi riutilizzata senza il suo nome. Il 7 ottobre 1593 fu posta la prima pietra sul progetto di Giulio Savorgnan e Marcantonio Martinengo. La sua edificazione impegnò molte energie oltre all’armonia e alla sua originalità doveva anche essere funzionale, dato che uno dei suoi principali scopi era la difesa della zona dalle invasioni dei turchi. Fu l’antico borgo di Palmata ad essere trasformato in Palma La Nuova. Fu costruita per volontà della Serenissima Repubblica di Venezia che disse di averla realizzata esclusivamente a scopo militare. Ma la sua forma è troppo originale affinché l’unica ragione sia questa. Si decise di realizzarla a causa dei turchi che, dopo sette incursioni senza troppa fatica in Friuli, misero quasi la regione in ginocchio. Le altre città erano troppo vecchie e mal ridotte dal punto di vista difensivo, occorreva qualcosa di innovativo, una grossa fortezza “contenitore” per persone in difficoltà. Tra gli architetti abbiamo anche lo Scamozzi che progettò per la famiglia dei Gonzaga la piazzaforte di Sabbioneta (Mn) opera innovativa e avanzata per l’epoca. Interessante è la Piazza d’Armi o Piazza Grande, la piazza centrale perfettamente esagonale. Al centro vi è un basamento a 6 lati, di pietra d’Istria da cui si alza lo stendardo. All’imbocco di ogni strada che si diramano da qui vi sono 11 statue che rappresentano i Provveditori Generali della fortezza. Non si conoscono le singole vicende che legano ogni personaggio, ma si ritiene che vennero scolpiti a riconoscenza di qualche fatto. Inoltre lungo tutto il perimetro della piazza passa un canaletto pieno d’acqua. Questo ha un forte valore simbolico perché valorizza il centro di Palmanova come area pura, pulita, sicura perché circondata dall'acqua. Circoscriversi con il nobile liquido significava difendersi da un fuoco, da un incendio dirompente, dalla corruzione e dal male del mondo circostante. E qui potrebbe emergere una duplice lettura. Se da un lato si usavano le mura per difenderla da attacchi concreti di eserciti spietati, dall’altro si usava un “muro di acqua” come difesa da forze oscure e malvagie, perché essa, simbolo di vita, avrebbe respinto la morte. Così Palmanova, oltre a distinguersi come Gran fortezza, aveva l’appellativo anche di luogo di salvezza, se venne concepita per difendere il corpo, perché no, poteva difendere anche l’anima. É stata realizzata in questo modo anche per essere un baluardo del rinascimentale concetto di città ideale. La data di nascita è il 7 ottobre 1593, che ricorda due date molto importanti: la festa di Santa Giustina patrona della città e l’anniversario della vittoria di Lepanto sui Turchi nell’anno 1571 e dato che è stata voluta dalla Serenissima di Venezia come baluardo di difesa contro i turchi, la data di fondazione è simbolica. Poi nel 1797 alla caduta di Venezia passò sotto il dominio napoleonico, poi all’Austria e infine al Regno d’Italia nel 1866. Nel 1960 fu proclamata l’intera città “Monumento Nazionale”. Una curiosità: per salire al piano superiore delle tre porte principali occorre percorrere alcune rampe laterali, così se i nemici fossero riusciti ad oltrepassare le entrate, sarebbero finiti in una sorta di cortile interno chiuso dalle stesse rampe, direttamente in trappola in balia degli assediati che erano lì in alto ad aspettarli. Un’altra caratteristica della città era la sua “invisibilità”. Era infatti stata costruita più in basso della linea d’orizzonte così da sparire agli occhi nemici che non sarebbero riusciti a definirla completamente avendo sempre molti angoli sconosciuti. Dopotutto le ricognizioni aeree non esistevano e colline e monti erano lontani. Inoltre le mura esterne sono ricoperte di terra e vegetazione che addirittura mimetizzano l'intero abitato. Fu celebrata come la più inespugnabile città dell’intera Europa. Per questo ispirò altre fortezze europee: Pamplona e Jaca in Spagna, Vauban in Francia, Neuf Brisach in Alsazia, Fredericia in Germania più tante altre. Ma Palmanova aveva anche un cuore, non doveva ospitare solo militari, ma era stata progettata per contenere anche 20.000 abitanti, famiglie disposte a vivere al suo interno. Ma la cosa non ebbe successo perché nessuno ci andò ad abitare. Per quale motivo? Forse spaventava l’idea di crescere dei figli all’interno di un ambiente finalizzato alla guerra. Oppure semplicemente spaventava la stessa città, così regolare, così perfetta e uguale in ogni suo angolo, probabilmente anche così fredda, soprannaturale, ultraterrena. Se questo affascina noi che ci rechiamo a visitarla, un tempo poteva forse spaventare. Chissà, magari all’interno di questa stella perfetta ci si sentiva addirittura prigionieri. La sensazione era così forte che la stessa Venezia per “riempire” la città inviò i prigionieri per viverci. Il destino volle che Palmanova non affrontò mai un assedio, perché passò poi sotto il dominio napoleonico in totale pace e abbandono. Unica in Europa, Palmanova mantiene un fascino senza pari, una vera stella del firmamento in terra. Così come noi dalla terra possiamo osservare le stelle in cielo, finalmente anche il cielo può osservare una splendida stella sulla terra. Esistono due leggende legate alla fondazione di Palmanova. La prima narra di un pastore di nome Camotio che addormentatosi nel luogo in cui successivamente sorse la città, corse dai suoi amici giurando di aver avuto come visione una grandiosa fortezza a forma di stella che lì sarebbe sorta. Lo presero per ubriaco e lo beffeggiarono. Un’altra narra che quindici provveditori, durante un sondaggio del terreno, furono colpiti da un temporale e trovarono riparo in una cappella di quel luogo desolato. Mentre erano in attesa che la pioggia cessasse, una ragnatela cadde dal soffitto posizionandosi perfettamente davanti a loro. Ed ecco che ebbero come un’illuminazione per il progetto della futura fortezza. Dopotutto non esiste nulla di tanto perfetto che non nasca prendendo ispirazione dalla natura stessa e chi, come un ragno, avrebbe saputo meglio costruire un luogo di difesa! Furono tutti d’accordo, si passò al progetto e come piccoli ragnetti iniziarono a tessere la piantina.