14 aprile 1848

Pietro Fortunato Calvi passò in Cadore per organizzare la resistenza armata. Era questa una zona sensibile, al confine con l'Austria e porta d'accesso al Veneto. Nacque a Briana di Noale, allora in provincia di Padova, da Federico Pietro e da Angela Meneghetti. Il padre era commissario di polizia e fedele suddito dell'Austria (rappresentata dal regno lombardo-veneto) e quando venne trasferito a Padova portò con sé la famiglia. Pietro, che aveva già cominciato gli studi con il parroco di Briana, proseguì la sua educazione presso il ginnasio "Santo Stefano" (l'attuale "Tito Livio"). Il 28 aprile 1830 fu ammesso a frequentare i 6 anni di corso della prestigiosa Accademia militare degli ingegneri di Vienna, grazie alla dotazione gratuita di una fondazione statale, espressamente istituita per il lombardo-veneto, in favore di 10 giovani del regno che avessero voluto accedervi; ne uscì a diciannove anni iniziando così la regolare carriera militare come alfiere (17 settembre 1836) presso il reggimento della fanteria di linea barone Wimpffen N° 13 (veneto con sede a Padova). Tenente nel 1840, fu promosso primo tenente solo poco prima dei rivolgimenti europei del 1848, mentre il reggimento era di guarnigione a Graz (comando, 1º e 2º battaglione), mentre il 3º battaglione, che fungeva da deposito a Venezia, venne sorpreso dalla ribellione. Venne a contatto con le correnti patriottiche mentre era di stanza a Venezia. Frequentò segretamente diversi circoli, come quello dell'ufficiale dalmata Demetrio Mircovich, ma il comando austro-ungarico, sospettando che Calvi fosse legato alla massoneria, lo trasferì a Graz nel 1846. Inviato da Daniele Manin, Calvi passò in Cadore per organizzare la resistenza armata. Era questa una zona sensibile, al confine con l'Austria e porta d'accesso al Veneto. Il 14 aprile 1848 Calvi assumeva ufficialmente il comando e il 20 aprile giungeva a Pieve di Cadore. Riuscì a mettere in piedi una piccola armata di circa 4.600 unità, costituita in massima parte da volontari inesperti ma valorosi i quali, spesso armati solo di falci, forche e sassi, riuscirono a tenere a bada il nemico tramite tecniche di guerriglia. Il modesto contingente riuscì così a respingere una colonna proveniente dalla valle del Boite (2 maggio) e poi a sconfiggere a Rivalgo di Ospitale di Cadore le truppe del generale Karl von Culoz. Seguirono altre vittorie a Rindemera, presso la Chiusa di Venas di Cadore e ancora a Rivalgo. I successi furono però effimeri: il 15 giugno, con l'intensificarsi degli attacchi nemici, il Calvi congedava la milizia e si metteva in salvo a Venezia. Caduta Venezia e ripristinato il governo austriaco sul lombardo-veneto, Calvi - come molti altri rivoluzionari - fuggì in esilio, prima in Grecia presso Patrasso e poi a Torino. Qui entrò in contatto con il cadorino Talamini Minotto e condusse tre anni di vita miserevole, grazie al povero sostentamento che il governo locale donava agli esuli, al lavoro saltuario di traduttore dal tedesco e alle donazioni del fratello Luigi. Alle difficoltà economiche si aggiungeva anche l'interruzione di qualsiasi rapporto con il padre, che lo considerava un traditore. A Torino, tuttavia, ebbe modo di incontrare altri esuli ed entrare in contatto con due dei più grandi rivoluzionari del tempo, Giuseppe Mazzini e l'ungherese Lajos Kossuth. Per volere di Mazzini – che nonostante la delusione del 6 febbraio 1853 non aveva rinunciato alla lotta armata – Calvi fu inviato in Cadore per una nuova spedizione, da effettuarsi sul finire dell'estate del 1853, per accertarsi della possibilità o meno di portare nuovamente la rivoluzione. A questo scopo alla fine dell'agosto del 1853 scelse quattro compagni, tra cui il padovano Roberto Marin e dalla Svizzera, paese nel quale era stato costretto a rifugiarsi a causa del suo coinvolgimento nei moti di Milano del 6 febbraio, iniziò il cammino verso il Veneto, non sapendo che la polizia austriaca, tramite una spia (l'amante di Demetrio Mircovich, nella cui casa Calvi aveva esposto il piano), conosceva il suo progetto e i suoi spostamenti. L'itinerario prevedeva di attraversare il Cantone dei Grigioni, la Valtellina, Bormio, il Corno dei Tre Signori e il Trentino per giungere in Cadore. Nei medesimi giorni il conte Ulisse Salis, patriota da anni impegnato nella causa risorgimentale, ebbe modo di leggere un carteggio della polizia distrettuale che dimostrava come gli austriaci conoscessero le tappe della spedizione. Tuttavia, per quanto avvertisse subito Maurizio Quadrio, era troppo tardi: Calvi si trovava già in marcia. Varcato il confine austriaco nei pressi della Valtellina il gruppo era riuscito a far perdere le tracce alla polizia austriaca, ma a Cogolo, in Val di Sole, il 17 settembre 1853 i cinque rivoluzionari si fermarono in un'osteria dove i gendarmi, venuti a sapere che nel paesino si trovavano dei forestieri, scoprirono i passaporti falsi e una notevole quantità di armi, tale da giustificare il loro immediato arresto. Da qui furono trasferiti a Cles, Trento, Innsbruck, e infine Verona, per poi essere condotti nel castello di San Giorgio a Mantova dove vennero processati secondo due riti: il primo militare (Corte marziale) estremamente duro, durante il quale subirono torture; il secondo condotto dall'autorità civile (Corte Speciale di Giustizia). Durante entrambi i processi, Pietro Calvi dimostrò una straordinaria forza d'animo, cercando di addossarsi tutte le responsabilità del piano rivoluzionario al fine di evitare ai quattro compagni la condanna a morte con l'accusa di "alto tradimento". Questo comportamento salvò Morati, Chinelli, Fontana, Marin e Barozzi che furono condannati a qualche anno di carcere mentre a Calvi, reo confesso, fu negata la Grazia Sovrana e venne condannato alla pena di morte tramite impiccagione, eseguita il 4 luglio 1855 a Lunetta, località del comune di Mantova, poco fuori dalla città oltre il ponte di San Giorgio. Dopo l'arresto, erano state inoltre trovate addosso a Calvi tre lettere da indirizzarsi, in caso di necessità a persone fidate. I tre destinatari erano Ulisse Salis, il caffettiere tiranese Antonio Zanetti e Gervaso Stoppani di Bormio. Furono arrestati anch'essi e in seguito condannati a scontare la pena nelle fortezze austriache. Calvi andò incontro alla morte con dignità, come si evince dalle parole consegnate al giudice austriaco nella dichiarazione che stilò pochi giorni prima di salire al patibolo: «Io, Pietro Fortunato Calvi, già ufficiale dell'esercito austriaco, ex colonnello dell'esercito italiano durante la guerra dell'indipendenza, ora condannato a morte per crimine di alto tradimento, vado lieto incontro a questa morte, dichiarando in faccia al patibolo che quello che ho fatto l'ho fatto di mia scienza, che sarei pronto a farlo ancora, onde scacciare l'Austria dagli Stati che infamemente ha usurpato. Chieggo che questa mia dichiarazione [...] sia [...] unita al mio processo, onde tutti sappiano che Pietro Fortunato Calvi, piuttosto che tradire la sua patria, offre il suo cadavere» Per l'esecuzione avvenuta nella stessa città di Mantova, Calvi fu accomunato ai dieci patrioti trucidati a Belfiore, poco fuori le mura cittadine, entrando di diritto nel "mito" risorgimentale dei Martiri di Belfiore.