2 aprile 658

i Longobardi attraversavano il Passo del Predil, nelle Alpi friulane, calando in Italia e occupandola quasi per intero. Con la venuta di questo popolo nella nostra penisola, l'ardua opera appena conclusa da Giustiniano e da Belisario andò in fumo, segnando anche il principio delle secolari divisioni politiche. L'irruzione dei Longobardi pose fine all'effimera riconquista bizantina, ruppe l'unità politica della penisola italiana che si trovò infatti divisa tra i Longobardi e i Bizantini, secondo confini soggetti a variabilità nel corso del tempo date le caratteristiche dell'insediamento longobardo e le oscillazioni dei rapporti di forza. I nuovi venuti si ripartirono tra Langobardia Maior (l'Italia settentrionale gravitante intorno alla capitale del regno, Ticinum - oggi Pavia -; da qui il nome dell'odierna regione Lombardia) e Langobardia Minor (i ducati di Spoleto e Benevento), mentre i territori rimasti sotto controllo bizantino erano chiamati "Romània" (da qui il nome dell'odierna regione Romagna) e avevano come fulcro l'Esarcato di Ravenna. All'ingresso in Italia, il Re Alboino affidò il controllo delle Alpi Orientali a uno dei suoi più fidi luogotenenti, Gisulfo, che divenne il primo duca del Friuli. Il ducato, con sede a Cividale del Friuli (allora Forum Iulii), sempre in lotta con le popolazioni straniere che si affacciavano dalla Soglia di Gorizia,[2] avrebbe mantenuto fino al regno di Liutprando una maggiore autonomia nei confronti degli altri ducati della Langobardia Maior, giustificata dai suoi eccezionali bisogni militari. In seguito altri ducati furono creati nelle principali città del regno: la soluzione fu dettata da esigenze in primo luogo militari (i duchi erano prima di tutto comandanti, con il compito di completare il controllo del territorio e tutelarlo da possibili contrattacchi), ma gettò il seme della strutturale debolezza del potere regio longobardo.[3] Nel 572, dopo la capitolazione di Pavia e la sua elevazione a capitale del regno (dove il palazzo regio fatto edificare da Teodorico fu scelto come sede regia[4][5]), Alboino cadde vittima di una congiura ordita a Verona dalla moglie Rosmunda, in combutta con alcuni guerrieri gepidi e longobardi. L'aristocrazia longobarda, comunque, non avallò il regicidio e costrinse Rosmunda alla fuga presso i Bizantini, a Ravenna.


2 aprile 1655

Il Consiglio dei Dieci sentenzia che sia decapitato il nobile Angelo Bollani. Innumerevoli erano le ribalderie che commetteva nel suo reggimento Angelo Bollani, podestà e capitano di Crema . Egli volgere a suo profitto , anzichè a quello dell'erario , le tasse ritratte dalle licenze d'armi . Egli , mediante premio , chiudere un occhio sopra il reato d'un Paolo Ferrabosco , mercadante , che aveva fatto un pagamento con parpagiole , moneta proibita . Egli liberare un mariuolo incarcerato per molte colpe purchè desse una querela ai macellai, e col timor del castigo smugnere a quest 'ultimi le saccoccie d'oro non poco . Egli alterare le spese fatte pei mantelli delle truppe . Egli staccare false bollette di pagamento sotto nome di persone sue confidenti , o supposte . Egli , col pretesto di non esservi danaro nella pubblica cassa , differire i pagamenti , nè soddisfare i creditori senza la promessa d'in debiti donativi . Quasi poi ciò fosse poco, non esitò di bruttarsi le mani nel sangue d'un infelice . Avendo proposto all'esazione dei dazii un Agostino Ferrari, ben presto si pose d'accordo con lui nel frodare lo stato . Scoperto poscia l'imbroglio , cercò di persuadere il Ferrari alla fuga , ma questi ricusò di farlo , dicendo d'aver operato per ordine del Bollani , e di detenere le ricevute del danaro contatogli . L'iniquo podestà chiama allora l'esattore al proprio palazzo , lo trattiene in parole fino al sopraggiungere della notte , e poscia per mano di tre sicarii lo fà trucidare sulla pubblica via . Per tali misfatti il Consiglio dei X , con sentenza 2 aprile 1655 , condannò il Bollani alla decapilazione, ed a vent'anni di carcere il conte Roberto Benzon di lui complice. Ordinò poi che si distruggessero in Crema tutte l'insegne e memorie del giustiziato.


2 aprile 1725

Nasce Giacomo Girolamo Casanova, fu una delle figure più vivaci del settecento veneziano. Egli fu molte cose: avventuriero e donnaiolo, scrittore e bibliotecario, alchimista e storiografo, diplomatico e persino spia. La sua figura viene ancor oggi ricordata per essere stato, per così dire, il primo latin-lover italiano, nonché uno dei massimi rappresentanti dello stile di vita libertino. Secondo di sei figli di Gaetano Casanova, in realtà solo padre putativo del giovane, e di Giovanna (Zanetta) Farussi, detta la Buranella, nato da famiglia di attori quasi sempre assenti a causa degli impegni lavorativi, fu cresciuto quasi completamente dalla nonna materna. all'età di nove anni fu condotto a Padova, alla scuola dell'abate Antonio Gozzi, dove rimase fino alla fine dei suoi studi. Qui ampliò in modo sostanzioso le sue conoscenze culturali, dalla letteratura alla scienza, fino alla musica. Nel 1737, su consiglio della madre, si iscrisse alla facoltà di giurisprudenza, ma più che agli studi iniziò ad appassionarsi ad altro: le donne. Poco dopo il suo ritorno a Venezia, nel 1743, la nonna, che l'aveva visto crescere, morì. Ciò turbò molto Casanova che, perdendo un'importante punto di riferimento, accusò il colpo. Gli anni successivi rappresentarono un periodo turbolento per Giacomo che visse il susseguirsi di diverse esperienze, da quella ecclesiastica fino a quella militare. La sua vita subì un'importante svolta nel 1746, quando conobbe Matteo Giovanni Bragadin, patrizio e senatore veneziano, di cui seppe guadagnarsi eterna gratitudine (guarendolo da un malanno) a tal punto che lo adottò come figlio e s'impegnò a mantenerlo. La nuova vita agiata e la frequentazione con le classi nobili attirò l'attenzione degli inquisitori di stato su Casanova. Egli, date le circostanze, lasciò Venezia e si diresse in Francia. Lasciò traccia in diverse città francesi tra le quali Lione, dove venne associato alla massoneria e Parigi, dove, sebbene ebbe svariati contatti con la corte, le sue occupazioni prevalenti furono, al solito, le conversazioni, il gioco e gli amori fuggenti. Dopo anni di assenza, tornò a Venezia nel 1753. Non appena tornato, riprese le sue vecchie abitudini a pieno ritmo. Il suo carattere e il suo comportamento troppo vistoso, avventura dopo avventura, lo portarono a farsi dei nemici, al punto da farsi arrestare e rinchiudere, nella notte tra il 25 e 26 luglio 1755, nei Piombi, con l'accusa di "libertinaggio" compiuto con donne sposate, di spregio della religione e in generale di un comportamento pericoloso per l'immagine e la stabilità del regime aristocratico. Dopo 15 mesi di reclusione, riuscì ad evadere e, dopo svariate tappe, raggiunse nuovamente Parigi. Racconterà minuziosamente, solo in seguito, la sua evasione nelle pagine di‘Histoire de ma fuite des Prisons de la République de Venise. Dopo una piccola parentesi parigina, riprese a viaggiare in tutta Europa. Nel 1761 Casanova soggiornò anche a Torino, scoprendo una città con cibo e aria buoni, belle donne ed eccellenti ristoranti. Giunse con la speranza di ottenere un incarico di rappresentante del governo inglese per un trattato di pace che si doveva svolgere a Fontainebleau. Non fu questa la prima e ultima occasione che lo vide nella nostra città. Dopo anni di assenza, una volta ritornato nel suo paese natale, nel 1774, per guadagnarsi da vivere, si propose agli Inquisitori, li stessi che l'avevano perseguitato fino a poco prima, come spia. La collaborazione non durò molto e si estinse per scarsità di rendimento. Rimasto senza fonti di sostentamento, si dedicò all'attività di scrittore. Nel 1782 venne esiliato nuovamente dalla Repubblica di Venezia, ma questa volta definitivamente. Tra il 1789 e il 1798 Giacomo Casanova scrisse la storia della sua vita nel libro Mémoires, altresì chiamato l'histoire de ma vie. Lo scritto voleva essere una testimonianza delle sue avventure, delle sue innumerevoli conquiste galanti, dei viaggi e più in generale del suo il suo modo di vivere. Casanova trascorse gli ultimi tristissimi anni della sua vita a Duxin (Boemia), dove svolse la mansione di bibliotecario nel castello del conte di Waldstein, fino al giorno in cui si spense definitivamente, il 4 giugno 1798.