29 giugno 900

Battaglia "navale" tra ungari e veneziani.Le invasioni ungare si ebbero tra il IX e il X secolo nell’Europa. Entrati in Italia, gli Ungari passarono accanto alle grandi mura di Aquileia senza attaccarla, frammentandosi poi in unità più piccole in molte direzioni e attaccando i dintorni di Treviso, Vicenza, Verona, Brescia, Bergamo, Milano e Pavia. Dopo aver distrutto Feltre, una delle unità raggiunse ad ovest anche il Gran San Bernardo. Di solito i guerrieri nomadi non attaccavano i castelli e le grandi città circondate da mura, in quanto non erano in grado di sostenere assedi e non avevano la tecnologia per costruire e impiegare macchine d'assedio. Pertanto, solitamente essi saccheggiavano e davano alle fiamme i monasteri e le abitazioni presenti nelle campagne situate sulla loro strada, accumulando così il loro bottino. Prima che gli Ungari lasciassero l'Italia, nella primavera del 900, essi conclusero la pace con Berengario, che gli concesse in cambio della loro partenza degli ostaggi e del denaro per garantire la pace. Dopo questa sconfitta, o al più tardi dal 904, Berengario iniziò a rendere loro omaggio regolarmente e fino alla sua morte, avvenuta nel 924; in cambio gli Ungari lo aiutarono contro tutti i nemici che aveva. Come scrive Liutprando, gli Ungari entrarono in stretti rapporti con Berengario. Sembra che, col tempo, alcuni dei capi ungari siano addirittura diventati suoi amici personali. Sulla via del ritorno a casa, gli Ungari eseguirono un'operazione militare che nessun altro esercito di terra ha provato nella storia. Pur non disponendo di navi, barche o altri tipi di imbarcazioni, il 29 giugno 900 essi pianificarono una campagna marittima contro Venezia. Come riferisce il Chronicon Sagornini di Giovanni da Venezia, i Magiari attaccarono dapprima i dintorni della città lagunare dalla costa con i loro cavalli e con le proprie «navi di cuoio». Con l'espressione «nave di cuoio» l'autore si riferisce a una pelle di animale (capra, pecora, forse mucca) legata per formare qualcosa come un'enorme sacca piena d'aria e legata sui lati dei cavalli. Essa aiutava il guerriero e il suo cavallo a galleggiare e veniva di solito impiegata dai guerrieri nomadi allo scopo di attraversare i fiumi. Per prima cosa essi attaccarono e bruciarono le città costiere come Equilio, Cittanova, Fine, Capo d'Argine, dopodiché legarono le pelli di animali ai loro cavalli, attraversarono le acque della Laguna di Venezia e saccheggiarono la città dell'isola di Chioggia, che faceva parte del Dogado (patria della Repubblica di Venezia). Il giorno del martirio di San Pietro e San Paolo (29 giugno), sulle loro «navi di cuoio», tentarono di fare il loro ingresso a Rialto e a Malamocco, ma prima di raggiungere le isole, in una località chiamato Albiola, il doge di Venezia Pietro Tribuno li incontrò con la flotta da guerra veneziana e li costrinse a ritirarsi. Sebbene avessero perso questa insolita battaglia navale, gli Ungari escogitarono un singolare stratagemma per attaccare le isole situate a media distanza dalla costa. Peraltro, l'attacco sull'isola di Chioggia del 29 giugno si concluse con un successo. Forti di questa vittoria, pare che i veneziani abbiano chiesto a Berengario se avesse bisogno di supporto per respingere definitivamente gli Ungari dall'Italia. Gli storici non sono d'accordo sulla rotta seguita dall'esercito per tornare nelle terre magiare. Da un lato György Szabados crede che l'esercito abbia abbandonato l'Italia senza entrare in Pannonia ed evitandola da sud, perché a suo parere erano stremati dai continui combattimenti avvenuti in Italia nell'ultimo anno e temevano di venire predati da saccheggiatori stranieri. Alla stessa opinione si è accodato anche lo storico György Györffy. Dal canto loro, Gyula Kristó e István Bóna pensano invece che l'esercito ungaro di ritorno dall'Italia abbia preso parte alla conquista della Pannonia, ma in modi diversi. Kristó ritiene che le armate magiare abbiano ricevuto soltanto il compito di compiere saccheggi e di indebolire la capacità di resistenza degli abitanti prima dell'attacco finale. In seguito, all'esercito sarebbe stato assegnato il compito di attraversare il Danubio e di fare ritorno a casa, mentre due eserciti ungari composti da uomini freschi e riposati provenienti dall'est avrebbero completato l'occupazione. Bóna ritiene che l'esercito magiaro di ritorno dall'Italia abbia avuto un ruolo attivo nella conquista della Pannonia, in quanto proveniente da sud-ovest. In tal modo, le armate giunte da oriente avrebbero incontrato una resistenza ridotta e avrebbero potuto attaccare con maggiore agilità. Lo studioso pensa dunque che l'esercito ungaro sia tornato dall'Italia e abbia ricevuto l'ordine di giungere in soccorso nella conquista della Pannonia, operazione completata eseguendo una manovra di accerchiamento


29 giugno 1440

La battaglia di Anghiari fu combattuta tra le truppe milanesi dei Visconti ed una coalizione guidata dalla Repubblica di Firenze, comprendente Venezia e lo Stato Pontificio. fu uno scontro molto importante per gli equlibri politici dell'Italia quattrocentesca e va inserita nel più complesso quadro delle guerre della Lombardia. Infatti già da molti anni la penisola era scossa dagli scontri fra due coalizioni orbitanti attorno ai due stati più egemonici, cioè il ducato di Milano, retto dalla famiglia dei Visconti, e la repubblica di Venezia. In questo contesto il comune di Firenze si era dapprima schierato con i viscontei per poi passare nel 1425 con la Serenissima sia perché era entrato in contrasto con il ducato, divenuto troppo influente perfino nella politica interna fiorentina, sia per trovare maggior intesa con il Papato, obiettivo che fu portato del tutto a termine nel 1431con la morte del pontefice antifiorentino Martino V e l'elezione di Eugenio IV più disponibile a nuove alleanze in funzione antiviscontea. Perciò, dopo numerosi altri scontri, nell'estate del 1440 le truppe ducali al comando del condottiero Niccolò Piccinino entrarono in Toscana e si scontrarono con quelle della coalizione (Firenze, Serenissima e stato Pontificio) fra il borgo di Anghiari e Sansepolcro. L'esercito della coalizione concentratosi nei pressi del piccolo borgo di Anghiari comprendeva 4000 soldati del Papa, guidati dal cardinale Ludovico Trevisano, un pari contingente fiorentino, ed una compagnia di 300 cavalieri di Venezia, guidati da Micheletto Attendolo. Alle truppe si aggiunsero volontari di Anghiari. Le forze milanesi, numericamente inferiori (9000 contro 1100), erano guidate da Niccolò Piccinino per conto del duca Filippo Maria Visconti e raggiunsero la zona nella notte del 28 giugno. A queste si unirono altri 2000 uomini della città di Sansepolcro. Confidando nell'elemento sorpresa e nelle capacità del proprio esercito, Piccinino ordinò un attacco per il pomeriggio del 29 giugno, ma la polvere sollevata dai milanesi sulla strada tra Sansepolcro e Anghiari allertò Attendolo, che si preparò alla battaglia. I cavalieri veneziani bloccarono l'avanguardia milanese sull'unico ponte attraverso il canale che proteggeva il campo della coalizione. Attendolo e i veneziani tennero il ponte permettendo alla maggior parte dell'esercito della coalizione di prepararsi allo scontro, ma furono fatti retrocedere dai rinforzi dei milanesi guidati dai capitani Francesco Piccinino e Astorre II Manfredi. I milanesi avanzarono ma il loro fianco destro fu presto ingaggiato dalle truppe papali e costretto a retrocedere sul ponte. In seguito giunsero anche contingenti di balestrieri genovesi al servizio dei viscontei che però non riuscirono a rovesciare l'esito dello scontro. Infatti la battaglia proseguì per quattro ore, fino a quando una manovra di accerchiamento tagliò fuori un terzo delle truppe milanesi sul lato toscano del canale. I combattimenti proseguirono nella notte e terminarono con la vittoria della coalizione. Lo scontro, descritto ironicamente da Machiavelli (che scrisse ed in tanta rotta e in sì lunga zuffa che durò dalle venti alle ventiquattro ore, non vi morì che un uomo, il quale non di ferite ne d'altro virtuoso colpo, ma caduto da cavallo e calpesto spirò), deve la sua notorietà alla sua rappresentazione realizzata da Leonardo da Vinci a Palazzo Vecchio (Firenze). L'opera, in seguito, andò perduta, ma ne rimane testimonianza attraverso i lavori di Rubens e di Biagio di Antonio (della scuola di Paolo Uccello). Analisi più precise del numero di perdite portarono lo storico britannico Michael Mallett ad ipotizzare in circa 900 i morti complessivi della battaglia.


29 giugno 1807

Viene abolita la Federazione dei Sette Comuni, la più antica della storia dopo quella svizzera.La Federazione dei Sette Comuni nota anche col nome di Spettabile Reggenza dei Sette Comuni, sorta nel 1310, ma già concretamente nata nel 1259 (vale a dire dalla caduta degli Ezzelini) sotto il nome di Lega delle Sette Terre Sorelle, è stata una piccola nazione indipendente comprendente il territorio oggi conosciuto come Altopiano dei Sette Comuni (comprendente Asiago, Lusiana, Enego, Foza – Gallio, Rotzo e Roana e alcune altre località contigue oggi appartenenti ad altri ambiti amministrativi, nelle attuali Province di Vicenza e di Trento. Il 20 febbraio 1404 secondo il calendario veneto (il 1405 secondo l’attuale) la Federazione dei Sette Comuni fece uno spontaneo atto di dedizione alla Repubblica di Venezia, che ne garantì i privilegi per i successivi quattrocento anni. Scomparve definitivamente il 29 giugno 1807 per volere di Napoleone I Imperatore di Francia e Re d’Italia che dichiarò abolito il Governo federale, ossia la Reggenza. Cessò così di vivere, dopo cinque secoli di vita, la più piccola delle Federazioni politiche d’Europa e nello stesso tempo la più antica assieme alla confederazione elvetica. Dopo una parentesi sotto il dominio dell’Impero austriaco, il 21 ottobre 1866 fu annessa al Regno d’Italia a seguito della vittoria italiana nella terza guerra di indipendenza.


29 giugno 1873

Ore 4:58 locali: è uno dei più forti dell’Italia nord-orientale. Ebbe una durata di circa 15 secondi, causò complessivamente 80 morti, 83 feriti e quasi 800 senzatetto. L’area più colpita è localizzata a nord del lago di Santa Croce, nella conca dell’Alpago, in provincia di Belluno, un’area montagnosa e semi agricola, con numerosi villaggi e paesi dove il terremoto causò estese distruzioni. Crolli diffusi avvennero anche nel trevigiano e nelle località a sud dell’altopiano della foresta del Cansiglio. Danni gravi, descritti minuziosamente dagli scienziati del tempo, furono rilevati in tutto il territorio compreso nell’area Belluno-Pordenone-Conegliano. In sette località dell’Alpago il terremoto causò le distruzioni maggiori, con danni che sfiorarono il grado X MCS. Furono quasi completamente rasi al suolo: Pieve d’Alpago con la frazione Curago, Puos d’Alpago con la sua frazione Cornei, il paese di Borsoi, nel comune di Tambre, e le località di Funes e Lamosano (entrambe frazioni di Chies d’Alpago). La fortissima scossa fu sentita in tutto il nord Italia fino a Genova e Torino, e verso sud fino alle Marche meridionali e all’Umbria. Di là dalle Alpi fu avvertita a Vienna, Lubiana, Lucerna, Augsburg, Innsbruck e in molte altre località della Svizzera, dell’Austria, della Slovenia e della Baviera. Chiese crollate, semi crollate o lesionate, case inabitabili: un quadro di desolazione che pesò per anni su una popolazione pressoché priva di risorse. Oltre ai paesi sopra citati, altre 15 località ebbero estese distruzioni, con numerosi crolli totali di edifici (effetti di grado IX MCS o di poco inferiori, si veda l’elenco delle località classificate in Appendice). Sintetizziamo i danni principali nella vasta area colpita, dentro e fuori l’Alpago. Nel comune di Chies d’Alpago la scossa fece crollare quasi tutti i fabbricati dell’abitato di Alpaos. Nel paese di Chies ci furono molti crolli e vittime. Ad Arsiè tutte le case, tranne una, divennero inagibili. Numerosi crolli a Plois e danni ingenti a Quers e a Torres. Gravissimi danni colpirono Tambre con le sue frazioni Tambruz, Valdenogher e Lavina di Sopra, e Farra d’Alpago. Nella vallata del Piave, nei pressi di Belluno, il terremoto rese inabitabili circa la metà delle case di Soccher, frazione del comune di Ponte nelle Alpi, e danneggiò gravemente un terzo dell’abitato di Visome, nel territorio comunale di Belluno.