24 giugno 1258

Battaglia di Acri, Genova e Venezia salirono rapidamente alla ribalta a partire dal XII secolo: la Repubblica di Venezia, “La Serenissima”, e la Repubblica di Genova, “La Superba”. Inevitabilmente, la rapida crescita del potere marittimo di queste due repubbliche le pose in rotta di collisione. Entrambe le repubbliche erano attive nel Levante fin dai primi giorni della presenza franca lì: le flotte di rifornimento da Genova si rivelarono vitali per l'assedio culminante di Gerusalemme nel 1099 e i veneziani intrapresero la loro intera crociata marittima, che culminò nella cattura della redditizia città portuale di Tiro nel 1124. Capitalizzare il commercio dall'Asia divenne una priorità strategica fondamentale per entrambi gli stati. Nonostante l'ascesa e il declino delle fortune franche in Terra Santa nel secolo successivo, la presenza veneziana e genovese nel Mediterraneo orientale non fece che aumentare, così come la loro reciproca competizione. Nel 1255, distinte fazioni si erano coalizzate all'interno dei resti del Levante franco, entrambe incentrate sul sostegno a una delle due Repubbliche. Come riportato nelle cronache dell'epoca, i veneziani avevano chiaramente la maggioranza del sostegno, godendo di quello della nobiltà e dei comuni franchi nativi, dell'Ordine dei Templari e delle comunità mercantili di repubbliche italiane minori come Pisa. I genovesi, apparentemente molto meno popolari, potevano contare solo sull'Ordine degli Ospitalieri e su Filippo di Montfort, Signore di Tiro. Gli eventi giunsero al culmine quando una rissa tra un veneziano e un genovese nel quartiere mercantile di Acri si rivelò mortale e, dopo una serie di violente rivolte di rappresaglia, la Guerra di San Saba iniziò sul serio. Inizialmente, Genova ebbe la meglio, espellendo con successo i veneziani da Acri e persino confiscando molte delle loro navi nel porto, dando alla propria flotta un netto vantaggio numerico. Tuttavia, la cattiva reputazione dei genovesi nel Levante divenne dolorosamente evidente poiché non trovarono quasi alcun sostegno per la loro causa tra i cittadini e la leadership di Acri. Inoltre, il loro ammiraglio, Rosso della Turca, era un vecchio con capacità di comando che erano discutibili nella migliore delle ipotesi. La Serenissima rispose con una vendetta, inviando l'abile ammiraglio Lorenzo Tiepolo con una flotta di circa quaranta galee veneziane per riprendere Acri. A causa della scarsità di supporto locale, i genovesi furono costretti a far salire a bordo della loro flotta più grande quelli che le cronache dell'epoca definivano "uomini che non sapevano nulla del mare", mentre i veneziani erano rinomati come alcuni dei migliori marinai del Mediterraneo. La flotta veneziana riconquistò rapidamente il porto di Acri in un lampo mentre i genovesi erano in mare e si preparavano per la resa dei conti che sapevano sarebbe seguita. Il 24 giugno del 1258, la flotta genovese tornò ad Acri e si schierò in un punto di strozzatura vitale appena a nord dell'uscita del porto per piombare sui veneziani mentre uscivano. Nonostante questa strategia sensata e il chiaro vantaggio numerico (oltre 50 navi contro le 40 di Venezia), ciò che accadde dopo è quasi incredibile. Mentre i veneziani cominciavano a uscire dal porto, un vento contrario separò alcune navi dalla formazione, dando inizio a un periodo di disordine vulnerabile. Invece di capitalizzare su questo, le discutibili capacità di comando di della Turca si rivelarono quando ordinò ai suoi marinai di "prandere" (prendere il pasto di mezzogiorno). Per quasi tre ore, la flotta genovese non fece nulla mentre i veneziani si riorganizzarono e si schierarono nella loro caratteristica formazione "a mezzaluna" con l'indicatore meteo a loro favore. Quando le galee veneziane alla fine si avvicinarono al nemico, ciò che seguì fu una rotta totale della flotta genovese presumibilmente superiore, con ventiquattro navi catturate e circa 1.700 marinai uccisi o fatti prigionieri. Le fortune di Genova nel Vicino Oriente non si sarebbero mai riprese dopo il loro impegno ad Acri nel 1258. I veneziani vittoriosi, con l'assistenza dei loro sostenitori nativi, avrebbero completamente demolito il quartiere genovese all'interno della città, arrivando persino a smantellare la torre che lo sorvegliava, i cui pilastri si trovano ancora oggi all'esterno della Basilica di San Marco a Venezia. Tuttavia, non meno di altre tre guerre sarebbero state combattute tra le due Repubbliche per il predominio sul Mediterraneo orientale, che alla fine avrebbero portato Venezia a diventare la principale potenza marittima della regione fino all'ascesa dell'Impero Ottomano nel XVI secolo. Per molti versi, l'egemonia della Serenissima sulle rotte commerciali asiatiche nel Mediterraneo ebbe un ruolo fondamentale nel motivare uno strano giovane navigatore della Genova del XV secolo, Cristoforo Colombo, a presentare una petizione ai vari regni della cristianità affinché sponsorizzassero la sua idea, all'epoca radicale, di navigare verso ovest attraverso l'Atlantico per stabilire nuove rotte commerciali con l'Oriente.


24 giugno 1405

Dedizione di Verona a Venezia. Nei primi anni del 1400, Verona è sistematicamente teatro di battaglie da parte di eserciti al soldo delle varie casate "egemoniche" del nord Italia. Una delle più crudeli è quella di Francesco da Carrara che nel 1404 riesce a conquistare la città e farsi proclamare signore. Ben poco dura il suo governo, però, che minacciato all’esterno dall’armata veneta, si ritrova assediato anche all’interno dalla popolazione affamata e minacciata dalle epidemie che abbandonati gli indugi, prende le armi, occupa la piazza grande e obbliga il Carrara con una fuga precipitosa a riparare in Castelvecchio. In quei momenti, è acclamato capitano del popolo Pietro Da Sacco che avrà il compito di trattare la dedizione della città alla serenissima con i rappresentanti veneti. Davanti alla porta di Campo Marzo, gli oratori veronesi capeggiati da Pietro Da Sacco conferirono con la delegazione veneziana guidata a sua volta da Gabriele Emo e Jacopo Dal Verme; fu consentito l’ingresso di 3 compagnie di fanti veneti con il compito di guardar la piazza mentre gli ambasciatori veronesi si portarono rapidamente al campo veneziano in prossimità o probabilmente all’interno del castello di Montorio. Furono immediatamente fissate le condizioni molto onorevoli della dedizione. Fu permesso che Verona continuasse a godere della libertà derivante dalla "podestà di ragunar senato, di crear magistrati, di far leggi e di governar la città, e le cose pubbliche, rimanendo ai veneti senatori il travaglio, i pericoli e la spesa" (Maffei). Furono concessi anche dei privilegi particolari ai contadini della valpolicella per essersi mostrati favorevoli a S. Marco nel corso delle guerre contro i visconti. Erano le stesse che dopo meno di un mese, il 16 luglio, furono solennemente convalidate a Venezia in una "ducale" con bolla d’oro, lettera ufficiale del doge, con sigillo aureo, avente forza di legge. Il 23 giugno i veneziani entrarono con gran pompa in Verona dalla porta del Calzaro sita tra Porta Nuova e Porta Palio. L’avvenimento fu consacrato con la nomina di molti cavalieri fra cui Pietro Da Sacco che lascio’ la carica di capitano del popolo. In cattedrale poi si cantò un Te Deum di ringraziamento e finalmente le nuove autorità venete presero alloggio nel palazzo che era stato degli Scaligeri. I veneziani, preso ufficialmente possesso di Verona, intesero farlo quindi militarmente. Il 24 giugno, provenienti da S. Michele Extra, giunsero le milizie guidate da Jacopo Dal Verme e sfilarono "in bella ordinanza con severissima disciplina" acclamate dal popolo. Entrarono dalla porta di Campo Marzo, attraversarono tutta la città passando da piazza delle Erbe, uscirono dalla porta del Calzaro e si accamparono fuori delle mura nella attuale zona dello stadio. Nello stesso giorno del 1405, si riunì il consiglio cittadino detto dei 12 che elesse gli ambasciatori che dovevano recarsi a Venezia per la dedizione pattuita. Continuarono poi le sincere manifestazioni di esultanza per la coscienza di trovarsi, dopo tante inquietudini, sotto un governo saggio e forte. Partirono i 21 ambasciatori l’8 luglio e giunsero in pompa magna a Venezia con 120 cavalli, ed alloggiarono nel palazzo del Marchese di Ferrara". In testa Leone Confalonieri, fra Zenone Negrelli e Pace Guarienti, reggeva la bandiera del Comune; preceduta pero’ dal nobile Aleardo Aleardi, fra Clemente dell’Isolo e Tebaldo del Broilo, che portava quella dei Cavalieri. Il Doge, circondato dal Gran Consiglio, accolse i Veronesi, tutti vestiti di bianco per significare la loro purezza e sincerità di mente e di volontà. Tutti erano solennemente riuniti su un palco eretto in Piazza S. Marco tra la chiesa e le mercerie. Pietro da Sacco, affiancato da Torneo de Caliari e Gaspare da Quinto, consegno’ le 3 chiavi della città e dei suoi distretti, in segno di dominio e possesso. I 21 ambasciatori tornarono in Verona acclamati dal popolo festante, il 26 luglio 1405 recando il gonfalone con il leone di S. MARCO avuto in dono dal Doge e le bolle d’oro. Il 2 agosto il gonfalone fu portato solennemente in piazza delle Erbe, issato sul carroccio che era custodito in S Zeno e quindi levato sopra l’altissima antenna vicino al capitello. I veronesi celebrarono da allora, il 24 giugno, con una solenne processione dal Duomo a S Giovanni in valle e con una pubblica grandiosa giostra che richiamava valenti cavalieri da tutta Italia.


24 giugno 1866

La battaglia di Custoza fu la battaglia che diede inizio alla terza guerra d'indipendenza italiana. Fu la prima battaglia del Regno d’Italia e si concluse con la sconfitta italiana. Potenzialmente superiori di numero, le truppe comandate dal generale Alfonso La Marmora si trovarono divise di fronte agli austriaci comandati dall'arciduca Alberto; e, nonostante il re Vittorio Emanuele II avesse ordinato alle truppe stanzianti a pochi chilometri dalla battaglia di muoversi, il generale Enrico Morozzo Della Rocca non lo fece richiamandosi agli ordini di tenere la posizione di La Marmora. La sconfitta ebbe una grande eco nel Paese e determinò la fine della carriera militare e politica di La Marmora. Non fu tuttavia decisiva perché la Prussia, alleata dell’Italia, sconfisse a sua volta l’Austria sul fronte settentrionale della guerra. L'alleanza italo-prussiana, siglata l'8 aprile 1866, aveva sancito l'obbligo di cooperazione militare fra Italia e Prussia contro l’Austria. Prevedeva l’impegno dell’Italia a soccorrere immediatamente la Prussia in caso di guerra di quest’ultima con l’Austria. In caso di vittoria dell’alleanza l’Italia avrebbe ricevuto il Veneto austriaco e la Prussia territori austriaci con numero di popolazione corrispondente. Sicura della neutralità francese, già il 1º giugno 1866, contravvenendo alla convenzione di Gastein, l'Austria dichiarò la Dieta di Francoforte (che controllava) competente sulla decisione circa i ducati danesi. La Prussia dichiarò violata la convenzione di Gastein e occupò militarmente il ducato dell'Holstein. Quest'ultimo era stato assegnato dalla convenzione all'Austria, le cui truppe si ritirarono senza sparare. Il 12 giugno Vienna ruppe le relazioni diplomatiche con Berlino e il 14 presentò alla Dieta una mozione per la mobilitazione federale contro la Prussia. Berlino dichiarò allora sciolta la Confederazione germanica e il 15 fece avanzare l'esercito verso sud invadendo la Sassonia che si era schierata con l'Austria. Il 16 il conflitto era, di fatto, iniziato. In ottemperanza agli accordi dell'alleanza, il presidente del Consiglio Alfonso La Marmora trasmise la dichiarazione di guerra a Vienna il 20 giugno 1866, con data di inizio delle ostilità 23 giugno. Il 21, intanto, le truppe prussiane erano arrivate al confine settentrionale dell'Austria, mentre a Firenze, nominato capo di Stato Maggiore e sostituito al governo da Bettino Ricasoli, La Marmora fu inviato sul campo. Le truppe italiane invasero il territorio austriaco il 23 giugno. La Prussia voleva colpire al cuore l'avversario trascurando le operazioni secondarie e puntare da nord sul Danubio e Vienna. Analogamente chiese all'esercito italiano di avanzare risolutamente e giungere con il grosso delle forze a Padova. Da qui le divisioni avrebbero proseguito verso l'Isonzo, appoggiate dalla flotta e sostenute sul fianco destro dell'avanzata da una spedizione di Giuseppe Garibaldi in Dalmazia e dall'insurrezione ungherese che sarebbe stato opportuno provocare. La proposta prussiana si scontrò, oltre che con le carenze della flotta italiana, soprattutto con la mancanza di unità di comando dell'esercito. Comandante supremo era re Vittorio Emanuele II e suo capo di stato maggiore Alfonso La Marmora, ma l'esercito era diviso in due masse: per agire dal Mincio e dal basso Po. Fautore dell'azione dal Po era il generale Enrico Cialdini, che esigeva la massima autonomia e al quale fu affidata l'impresa di attaccare gli austriaci da sud con 8 divisioni presso Ferrara. Mentre La Marmora, sostenitore dell'azione dal Mincio, comandava, di fatto, solo le altre 12 divisioni disponibili. Il comando supremo delle truppe spettava a Vittorio Emanuele II, al cui fianco assunse il comando dello stato maggiore il generale La Marmora. Vittorio Emanuele II si mosse per partecipare personalmente alle operazioni militari, lasciando la luogotenenza del Regno al principe Eugenio e raggiungendo il quartier generale a Cremona. La Marmora distribuì le sue 12 divisioni in tre corpi d'armata di quattro divisioni ciascuno. Il primo e il terzo, rispettivamente comandati dal generale Giovanni Durando e dal generale Enrico Morozzo Della Rocca furono quelli ingaggiati per primi. Il secondo era comandato dal generale Domenico Cucchiari. La composizione delle forze italiane di La Marmora sul Mincio era la seguente: Il 1º Corpo d'armata, al comando di Giovanni Durando e formato dalla 1ª Divisione di Enrico Cerale, dalla 2ª Divisione di Giuseppe Salvatore Pianell (ex generale borbonico), dalla 3ª Divisione di Filippo Brignone, dalla 5ª Divisione di Giuseppe Sirtori (ex garibaldino) e dalla 1ª Brigata di cavalleria di Alibardi Ghilini; Il 2º Corpo d'armata, al comando di Domenico Cucchiari (toscano) e formato dalla 4ª Divisione di Alessandro Nunziante (ex borbonico), dalla 6ª Divisione di Enrico Cosenz (ex borbonico ed ex garibaldino), dalla 10ª Divisione di Diego Angioletti (toscano), dalla 19ª Divisione di Longoni e da una brigata di cavalleria; Il 3º Corpo d'armata, al comando di Enrico Morozzo Della Rocca e formato dalla 7ª Divisione di Nino Bixio (ex garibaldino), dalla 8ª Divisione di Efisio Cugia, dalla 9ª Divisione di Giuseppe Govone, dalla 16ª Divisione di Umberto di Savoia (principe ereditario) e da una brigata di cavalleria. L'arciduca Alberto, temendo che gli italiani puntassero al medio corso dell'Adige da ovest, dispose per il giorno 24 giugno 1866 che tutta l'armata si portasse, dall'area di Verona e di Peschiera, a ovest e sud per occupare la zona collinare morenica che inizia da Sommacampagna per estendersi a occidente verso il Mincio. Da lì l'armata avrebbe dovuto attaccare il nemico sul fianco sinistro. Da parte italiana si erano avute notizie di movimenti da Verona, ma esse non erano state trasmesse al comando supremo. Tutti erano persuasi, quindi, che gli austriaci si tenessero sulla difensiva, dietro l'Adige. Per il 24 giugno La Marmora dispose per il 1º Corpo di Durando che la 2ª Divisione (Pianell) rimanesse dietro il Mincio a sorvegliare Peschiera, e le altre 3 avanzassero oltre il fiume: la 1ª Divisione (Cerale) a circuire Peschiera dalla riva sinistra del Mincio, e le altre due a conquistare la zona collinare obiettivo anche degli austriaci e avvicinarsi a Verona. Al centro il 3º Corpo di Della Rocca avrebbe occupato sia l'orlo collinare orientale (da Sommacampagna a Custoza), sia la sottostante piana di Villafranca. Infine, all'ala destra dell'armata di La Marmora, il 2º Corpo di Cucchiari, doveva passare il Mincio con 2 divisioni in modo da aggirare Mantova da nord e con altre 2 divisioni dispiegarsi da Curtatone a Borgoforte sul Po, 13 km a sud di Mantova. Complessivamente lo schieramento italiano si presentava piuttosto discontinuo, troppo esteso e con scarse riserve. Delle 12 divisioni di La Marmora solo 6 si vennero a trovare di fronte al nemico che, compatto e meglio diretto, avanzava verso di loro: 50.000 soldati italiani contro 70.000 dell'arciduca Alberto. Tuttavia, alcune fonti austriache parlano di 90.000 italiani e 75.000 austriaci; senza però distinguere fra presenti sul campo e partecipanti attivamente alla battaglia. Il 24 giugno 1866, sotto Peschiera l'avanguardia della 5ª Divisione (Sirtori) del 1º Corpo d'armata incontrò poco dopo le 6 elementi avversari e continuò ad avanzare fino a Oliosi (oggi frazione di Castelnuovo del Garda) dove si accese un aspro combattimento. Intervenne la 1ª Divisione (Cerale) che respinse gli austriaci e avanzò oltre Oliosi. Ma gli austriaci contrattaccarono con forze sempre più numerose. Da parte italiana morì il generale Onorato Rey di Vallerey, comandante della Brigata “Pisa” della 1ª Divisione, e lo stesso Cerale rimase gravemente ferito. Dopo 4 ore di combattimenti la 1ª Divisione era in ritirata, ma il comandante del 1º Corpo, Durando, impiegando le sue riserve fece occupare la collina del Monte Vento (un'altura a ovest separata dal complesso morenico) bloccando l'avanzata austriaca. Alle 6,30 La 5ª Divisione nella sua avanzata verso Santa Lucia del Tione (fra Oliosi a nord e Custoza a sud) respinse il nemico continuando ad avanzare. Ma anche qui gli austriaci si fecero sempre più numerosi e si susseguirono attacchi e contrattacchi: le due divisioni italiane, che combattevano separate, disponevano complessivamente di 16.000 uomini e 24 cannoni, contro i 32.000 uomini e i 64 pezzi del 5º Corpo e della divisione di riserva austriaci. Al centro dello schieramento italiano, intanto, erano avanzate in pianura la 7ª Divisione (Bixio) e la 16ª (Umberto di Savoia) del 3º Corpo d'armata. Entrambe fra le 6,30 e le 7 si erano spinte fuori Villafranca dove erano state attaccate da una brigata di cavalleria austriaca che alle 9,30 veniva definitivamente respinta subendo gravi perdite. Alla loro sinistra la 3ª Divisione (Brignone) del 1º Corpo veniva deviata da La Marmora e occupava le colline di Monte Torre e Monte Croce (a nord-est di Custoza): verso le 9 subiva un violento attacco del 9º Corpo austriaco che veniva respinto con gravi perdite. Iniziò allora una serie di attacchi e contrattacchi durante i quali fu ferito all'addome Amedeo di Savoia (terzogenito di Vittorio Emanuele II) comandante della Brigata “Granatieri di Lombardia” della 3ª Divisione. Anche qui, nella parte orientale della zona collinare, le forze austriache aumentarono e dopo 2 ore di lotta accanita, la divisione di Brignone venne sopraffatta. Dopo il successo, gli austriaci però ripiegarono lasciando 2 soli battaglioni a Monte Torre e a Monte Croce; e allora elementi della 8ª Divisione (Cugia), appena sopraggiunti, riconquistarono verso le 10,30 le due colline. A quest'ora la battaglia ebbe una sosta: a nord (ala sinistra dello schieramento italiano) gli austriaci erano stati fermati davanti a Monte Vento e al ciglione di Santa Lucia sul Tione, e al centro le posizioni a nord-est di Custoza erano state riconquistate. Intorno alle 11, alla sinistra dello schieramento italiano, il generale Pianell della 2ª Divisione, che aveva avuto l'ordine di rimanere in osservazione di Peschiera, accortosi della situazione critica del resto del 1º Corpo, prese l'iniziativa e con la Brigata “Aosta” attaccò le forze austriache che cercavano di aggirare Monte Vento da nord e raggiungere Valeggio per avvolgere gli italiani. L'intervento di Pianell fu risolutivo: gli austriaci si arrestarono e ripiegarono a nord su Salionze. Intorno a Monzambano, inoltre, reparti della Brigata “Siena” della stessa 2ª Divisione intrappolarono e catturarono circa 600 soldati nemici. Durando, nel frattempo, era stato ferito ad una mano e lascerà a Pianell il comando del 1º Corpo verso le 14. Intanto a Santa Lucia la 5ª Divisione (Sirtori) contrattaccava e ripassava il Tione, e alle 11,30 le alture di Custoza venivano riprese dalla 9ª Divisione (Govone) del 3º Corpo e dai resti della 3ª Divisione (Brignone). Il generale Govone chiese invano rinforzi al suo comandante Della Rocca che disponeva di 2 divisioni in pianura (7ª e 16ª), ma che aveva anche ricevuto l'ordine di La Marmora di «tener saldamente Villafranca». Alle 14,30 la 5ª Divisione veniva di nuovo attaccata da forze soverchianti del 5º Corpo austriaco che alle 15 conquistarono Santa Lucia e poi Monte Vento. L'arciduca Alberto, preparò allora l'attacco finale contro Custoza dove resisteva la 9ª Divisione di Govone. Costui alle 16 ne avvertì Della Rocca che rispose di volersi mettere in contatto con La Marmora. Alla stessa ora venne sferrato l'attacco risolutivo da parte del 7º Corpo e parte del 9°: 15.000 austriaci avanzarono contro 8 o 9.000 italiani, che, a causa della disorganizzazione, erano digiuni dal giorno prima. Cadde dapprima il Monte Croce, quindi il cerchio iniziò a chiudersi su Govone, che rimase ferito. Alle 17,00 Custoza era perduta, ma i difensori continuarono a combattere fin quasi alle 19,00. Govone riuscì a ritirarsi e portare la sua divisione a Valeggio, dove giunse a mezzanotte. Le altre 3 divisioni del 3º Corpo italiano ripiegarono su Goito protette dalla 7ª Divisione (Bixio) che dopo le 18 respinse vari attacchi di cavalleria e solo alle 21,30 abbandonò Villafranca. Gli austriaci, spossati, con gravi perdite, non inseguirono il nemico. L'arciduca Alberto, nel suo rapporto sulla battaglia scrisse: «Non si può negare all'avversario la testimonianza d'essersi battuto con tenacia e valore. I suoi primi attacchi specialmente erano vigorosi, e gli ufficiali, lanciandosi avanti, davano l'esempio.» Quanto alle perdite, gli italiani contarono 714 morti e 2.576 feriti; gli austriaci 1.170 morti e 3.984 feriti. Ma i dispersi e i prigionieri italiani furono 4.101, mentre quelli austriaci furono 2.802. La sconfitta di Custoza non fu di per sé grave, lo divenne per gli avvenimenti successivi. Il capo di stato maggiore La Marmora ritenne il 1º Corpo e una parte del 3° non più in grado di ricostituirsi, paventando l'ipotesi di una manovra aggirante degli austriaci da nord oltre il Mincio. Di conseguenza fece saltare tutti i ponti sul fiume e ordinò per la sua armata un ripiegamento fino al basso Oglio. Vittorio Emanuele II, intanto, nel pomeriggio del 24 giugno, mentre ancora a Custoza si combatteva, aveva telegrafato al comandante delle forze sul Po, Cialdini, di passare immediatamente all'azione avanzando, ma questi gli rispose che l'avrebbe fatto l'indomani, secondo i piani prestabiliti. Il 25 giugno Cialdini, ancora indeciso, ricevette nel pomeriggio il telegramma di La Marmora: «Austriaci gittatisi con tutte le forze contro corpi Durando e La Rocca li hanno rovesciati. Non sembra finora inseguano. Stia quindi all'erta. Stato armata deplorevole, incapace agire per qualche tempo, 5 divisioni essendo disordinate». A questo punto Cialdini rinunciò definitivamente a passare il Po, iniziando a sua volta la ritirata della sua armata sulla sponda sinistra del fiume Panaro. Il 26 mattina, La Marmora chiese a Cialdini di non abbandonare le sue posizioni ricevendone un rifiuto. Il capo di stato maggiore diede allora le dimissioni che sia il Re che il governo respinsero. Dopo un incontro fra i due generali, avvenuto il 29 giugno, finalmente Cialdini decise essere venuto il momento di passare il Po, non prima, tuttavia, di aver espugnato la testa di ponte austriaca di Borgoforte (sul fiume, 10 km a sud di Mantova). Il 5 luglio iniziò l'assedio della fortezza che, contrariamente alle previsioni, si protrasse fino al 18 luglio. Italiani e austriaci si incontrarono verso le 6,30 del mattino del 24 giugno 1866. La battaglia proseguì sempre più violenta, e alle 10,30 ebbe una sosta. Gli austriaci erano stati respinti e le sorti dello scontro erano ancora incerte. Le posizioni sulle colline moreniche della zona erano tenute dagli italiani, ma La Marmora, al contrario di Vittorio Emanuele II, valutò che la minaccia principale venisse dalla pianura. Così che quando l'artiglieria austriaca iniziò a colpire le colline, il Re disse a La Marmora: «Glielo avevo pur detto io!» e il generale: «Vostra Maestà ha giusto il dire, ma bisognerebbe saper tutto». Le colline moreniche si estendono a sud del Lago di Garda fino a Sommacampagna a nord e Custoza a sud. Dopo di che, ad est si apre la pianura dove si trova Villafranca. Tra le colline moreniche e Villafranca due delle divisioni del Corpo del generale Enrico Della Rocca si erano posizionate in pianura e avevano respinto un attacco austriaco. Poiché La Marmora considerava questo il punto debole del suo schieramento alle 9 parlò a Della Rocca destinandogli la divisione di cavalleria di riserva e ordinandogli di «tener fermo» sulle sue posizioni. Fu uno degli errori più gravi della giornata. La Marmora pensò infatti che lo sforzo del nemico si concentrasse tra Custoza e Villafranca, mentre, ripresa la battaglia, si concentrò su Custoza e a nord-ovest di quest'ultima, non a sud-est. Resosi conto della situazione, Vittorio Emanuele II raggiunse Della Rocca esortandolo a contrattaccare il nemico con le due divisioni inutilizzate davanti Villafranca e con la divisione di cavalleria, ma il generale gli obiettò l'ordine di La Marmora di «tener fermo». La Marmora capì la gravità della situazione quando si accorse delle truppe delle divisioni sulle colline moreniche a nord-ovest di Custoza che via via si ritiravano in ordine sparso verso il Mincio, mentre il carreggio ingombrava le strade. Tornatosene a Valeggio il generale ricevette l'impressione di una rotta sempre più grave: lo si udì mormorare «Che disfatta! Che catastrofe! Nemmeno nel '49!». Decise di raggiungere Oliosi, dove imperversava la lotta, ma la strada era ingombra e ripiegò allora, allontanandosi dal teatro della battaglia senza lasciare ordini, verso Goito dove giunse fra le 13,30 e le 14 per assicurarsi il ponte sul Mincio e organizzare la ritirata. Dove imperversava la lotta, invece, contravvenendo agli ordini di La Marmora (che erano di presidiare Peschiera), il generale (ex borbonico) Giuseppe Salvatore Pianell lanciava parte della sua divisione contro gli austriaci fermando, a nord-ovest, quella manovra avvolgente che probabilmente La Marmora aveva pensato si potesse svolgere a sud-est (nella pianura di Villafranca). L'azione di Pianell non evitò la sconfitta, ma forse evitò la catastrofe. Dopo la sconfitta La Marmora ritenne inservibili buona parte delle sue forze e non ritenne possibile mantenere la linea del Mincio temendo una manovra di aggiramento da nord. Per cui non solo i ponti sul fiume dopo la ritirata vennero fatti saltare, ma La Marmora la sera del 25 giugno pensò di far ritirare l'esercito dietro il Po e dietro l'Adda, e solo per la riprovazione del generale Govone e di alcuni altri si adattò a limitare la ritirata dietro l'Oglio. D'altro canto il generale Cialdini, dopo aver ricevuto l'ordine di Vittorio Emanuele II il 24 di passare il Po, aveva risposto di passarlo l'indomani come previsto. Il giorno dopo però Cialdini ricevette da La Marmora il telegramma: «Austriaci gittatasi con tutte le forze contro Corpi [dei generali] Durando e [Del]La Rocca li hanno rovesciati. Non sembra finora inseguano. Stia quindi all'erta. Stato [mia] armata deplorevole, incapace agire per qualche tempo, 5 divisioni essendo disordinate». Ricevuto questo messaggio Cialdini rinunciò definitivamente a passare il Po; non solo, ma iniziò a sua volta la ritirata dietro il fiume Panaro. Sul fronte prussiano, intanto, dopo la decisiva vittoria di Sadowa sull'Austria del 3 luglio, la Prussia si lamentò per la fiacca condotta di guerra dell'Italia, e il 13 Ricasoli volle incontrare Cialdini a Polesella. Il giorno dopo fu riunito il consiglio di guerra a Ferrara, presieduto da Vittorio Emanuele II e al quale intervennero Bettino Ricasoli, i principali ministri, La Marmora e Cialdini. Il consiglio stabilì che le armate sarebbero rimaste due, ma che a Cialdini, che ebbe il compito di raggiungere a marce forzate il fiume Isonzo, andavano 14 divisioni e a La Marmora, che ebbe il compito della retroguardia, solo 6. Ritiratisi gli austriaci dalla prima linea in Veneto per la sconfitta subita a nord dai prussiani, Cialdini poté finalmente avanzare in modo spedito, ma non vi fu l'opportunità di una rivincita. Anzi, il prestigio dell'Italia fu ulteriormente scosso dalla sconfitta navale di Lissa del 20 luglio 1866. La battaglia suscitò subito un notevole interesse internazionale. Già il 28 giugno 1866 il Manchester Guardian pubblicò ampie osservazioni di Friedrich Engels il quale, oltre ad un resoconto giornalistico (affermò di aver voluto provare a mettere ordine nella confusione dei tanti telegrammi che riferivano degli eventi in modo caotico), rese anche delle valutazioni d'altro ordine. Ben presto si pubblicarono saggi militari in cui si esaminavano professionalmente gli aspetti di strategia e di tattica considerati rilevanti. Fra questi quello di Cesare Rellica. Nonostante la vittoria sugli Italiani, l'Austria fu costretta a domandare la pace a causa del successo delle truppe prussiane nella battaglia di Sadowa del 3 luglio 1866, durante la quale gli alleati dell'Italia sbaragliarono gli austriaci.